Mamma di 5 figli, infermiera in prima linea
Benedetta Cipriani, 45 anni, da 27 infermiera, è una di quelle persone che quando le incontri ti sorridono anche con gli occhi, oltre che con il cuore. Per questo, nonostante la mascherina che indossa, come molti altri suoi colleghi riesce ad entrare in sintonia con i pazienti, anche se bardata come un’astronauta. La sua storia, però, ha qualcosa di decisamente straordinario. Benedetta ha cinque figli. Il più piccolo ha 6 anni, la più grande 18. Eppure, quando le hanno chiesto di tornare in prima linea, non ci ha pensato molto e ha accettato.
Come è finita dalla Pediatria alla rianimazione?
Io lavoravo in pediatria ormai da 15 anni. Un pomeriggio ero in servizio e il mio caposala mi ha detto che mi cercavano in direzione. Ho pensato fosse successo qualcosa e invece hanno chiesto, a me e altri colleghi di altri reparti, la disponibilità a tornare a lavorare in Rianimazione dove avevo già lavorato 20 anni fa. Un trasferimento momentaneo e legato a questo periodo di emergenza. Lì per lì non ci ho pensato tanto. La Rianimazione mi è sempre piaciuta e di pancia ho detto di sì. Le paure sono venute dopo: riprendere in mano le cose, gestire i bambini. Però non me la sono sentita di dire no, non perché io mi senta indispensabile, ma perché se ci sono dei colleghi che hanno bisogno, se posso aiutare, mi metto in gioco.
Quando ha iniziato in Rianimazione?
Un paio di settimane fa, quando c’erano già quattro rianimazioni e stavano iniziando la cinque. Ho fatto un paio di giorni in Rianimazione “normale” e poi mi hanno messo in rianimazione Covid. Devo ringraziare i vari caposala, chi mi ha lasciato andare e quelli che mi hanno accolto. E poi i colleghi che mi hanno accettato con grande disponibilità e pazienza anche se la situazione e il lavoro sono un po’ nuovi per tutti e ci aiutiamo reciprocamente.
Un lavoro diverso, quello che state facendo in questo momento di emergenza. Qual è l’aspetto più duro?
Quello che mi fa più specie è vedere i pazienti soli e rincuora che noi, al di là delle tecniche, possiamo stare loro vicino almeno un po’ a quelli svegli. Una carezza, una parola fanno la differenza. Sono pazienti fragili e complessi che non possono vedere nessuno per giorni, per settimane. Là dentro noi siamo tutto per loro: i loro infermieri, i loro amici, i loro parenti anche perché non hanno modo di comunicare con l’esterno. L’altro giorno, ad esempio, c’era un signore anziano che era sveglio ma confuso. Non poteva parlare perché aveva il respiratore attaccato e io stavo sistemando delle cose vicino a lui. Ad un certo punto ha iniziato a parlarmi, ma io non riuscivo a capivo. Poi ho visto che stava leggendo il mio nome che avevo scritto sul cerotto attaccato al camice. “Sì, mi chiamo Benedetta”, gli ho detto. Poi mi ha fatto capire che era sposato, aveva due figli grandi. Gli ho detto di stare tranquillo, che avremmo parlato noi con la moglie e che le avremmo detto dei suoi miglioramenti. Allora mi ha chiesto se ero sposata e avevo dei figli. Gli ho detto di sì, che ne avevo cinque. Con tutta la forza che aveva mi ha preso il braccio, ha tirato la mia mano verso di sé e mi ha baciato sopra i quattro guanti che indossavo. Mi sono commossa, mi veniva da piangere, ma mi sono trattenuta.
Quindi è vero che i pazienti sono soli ma voi ci siete con loro, non vengono lasciati morire in solitudine come qualcuno dice?
Per le famiglie è una tragedia non poter essere vicine ai loro cari, non poterli vedere, ma questa cosa non ci lascia indifferenti, siamo persone umane, di cuore e cerchiamo noi di supplire in ogni modo ai bisogni di attenzione che hanno le persone ricoverate. Una carezza, una parola, un sorriso, ripeto, fanno la differenza.
Torna a casa con la tua famiglia a fine turno?
Sì, io torno a casa. So che alcuni colleghi, avendo la possibilità, hanno fatto la scelta di stare lontani. Io ci ho pensato ma non me la sono sentita: ci sono i compiti, le lezioni on line, l’organizzazione della casa. Mio marito è bravissimo ma non volevo delegare tutto. I più piccoli all’inizio non hanno capito bene dove andavo. Mi vedevano tornare a casa stanca, con i segni degli occhiali, provata. Poi con il passare dei giorni hanno acquisito maggiore consapevolezza della situazione, c’è qualche timore, ma sono anche orgogliosi. Cerco di usare tutte le precauzioni. A volte mi viene da trattenermi nel dare loro un abbraccio o un bacio, ma non sempre ci riesco. Non voglio vivere la situazione con troppa ansia. A volte mi chiedo se ho fatto una scelta coraggiosa o incosciente. Quello che so è che sono contenta e non mi sono pentita, anche se magari arrivo a casa e vorrei mettermi a riposo e invece ho ancora mille cose da fare.
Cosa le aiuta a fare tutto questo?
Io prima di entrare in reparto faccio sempre una preghiera. Affidarmi a Dio in ogni cosa che faccio è fondamentale. Chiedo di avere la forza, la serenità e competenza di fare bene il mio lavoro. Alle volte mi viene da stringere i denti, poi chiedo aiuto e vedo che tante cose vanno bene e anche la paura passa. Sapere di contare su qualcuno di più forte di noi è una cosa importante. Questo virus non ha portato solo cose negative. In reparto, ad esempio, ho conosciuto persone splendide e in un ambiente di lavoro non è così scontato. Quel girarti e vedere uno che ti fa un cuore con le mani è una grande cosa. Io credo che l’emergenza ci stia unendo, siamo una bella squadra.