Operato in emergenza Covid: «Io rinato grazie al rene donato da mia moglie»

Questa è la storia di un dono. Un dono straordinario, arrivato il 22 aprile, mentre il mondo era in ginocchio, piegato da una pandemia che fa ancora paura.
Ma è anche la storia di un amore senza riserve.
Quello che parla con i fatti e che si declina con il “noi”.

Questa è la storia di Marco Anselmi, che in aprile ha subìto un trapianto di rene.
Un rene donato da sua moglie Michela Bergozza, «l’artefice del miracolo della mia rinascita», come racconta lui, imprenditore di 54 anni di Roveré della Luna (è il titolare della Biochimica sas).

Anselmi, insieme a Michela, compagna da una vita, vuole fare anche un appello: «Date il consenso alla donazione degli organi, vi garantisco che farete un atto d’amore incredibile, che vi permetterà di continuare a vivere rendendo veramente felici quelle persone, e sono tante, che non sono state fortunate nella salute ma che la vita ha trasformato in veri combattenti».

Anselmi, intanto come sta?

«Sto molto meglio. Certo, la situazione è sempre delicata, per il primo anno dovrò stare molto attento, ma la mia vita è radicalmente cambiata rispetto a due mesi fa, quando ero in dialisi».

Da quanto tempo era in dialisi?

«Avevo una malattia genetica e ho subìto l’asportazione di un rene nel settembre scorso, a novembre mi hanno dovuto asportare anche l’altro.
Da allora ero in dialisi».

L’unica alternativa era un trapianto.

«Sì. O da cadavere, come succede nella maggioranza dei casi o da donatore vivente. In questo caso il donatore è stata mia moglie Michela».

L’iter che ha portato al trapianto non è stato semplice.

«È stato un travaglio. Ad ottobre, dopo l’asportazione del primo rene, avrei dovuto fare il trapianto, ma sono finito all’ospedale Santa Chiara perché quello rimasto si è infettato. Dopo un mese mi hanno mandato con urgenza a Verona, dove ho subito la seconda nefrectomia. Quindi sono tornato a casa, in convalescenza fino a febbraio, quando mi hanno richiamato al Centro trapianti di Verona. Il 4 marzo mi ricoverano, ma per lo scoppio del Covid vengo rimandato a casa. Mi chiamano di nuovo, ma una febbre mi impedisce di partire».

Quando si sblocca la situazione?

«Sono stato ricoverato il 14 aprile, per una settimana sono stato sottoposto alternativamente a plasmaferesi (serve a “ripulire” il sangue del ricevente ndr) e dialisi. Sono sempre stato chiuso in camera: hanno fatto tutto in stanza, finché sono arrivati i risultati che rendevano possibile il trapianto. Così la sera hanno chiamato mia moglie e il 22 aprile ho subìto il trapianto».

La mattina è entrata in sala operatoria sua moglie, poi è toccato a lei.

«Sì, ci siamo potuti salutare. Michela è stata una leonessa. Dal primo momento in cui mi hanno detto che avrei dovuto subire un trapianto, lei si è detta disponibile a donarmi il suo rene e da lì non si è più mossa. Mai un ripensamento. È stato un percorso lungo e non semplice, lei ha dovuto subire esami, accertamenti, anche invasivi.
Ma è stata determinata fino all’ultimo. È una donna straordinaria. E la sua felicità è stata nel vedermi dopo il trapianto: lì ha capito cosa aveva fatto. Ma oltre a ringraziare lei vorrei lanciare un messaggio».

Quale?

«Al Centro trapianti di Verona ho visto persone che attendevano un rene da da 10-12 anni. Per loro l’arrivo di un rene è qualcosa che cambia davvero la vita. Per questo dico: date il consenso alla donazione degli organi».

Lei è un imprenditore. Come ha fatto in questi mesi?

«Ho dovuto delegare. Devo dire grazie alle mie figlie, Chiara e Alessia che, nonostante la giovane età e le molte vicissitudini, come il Coronavirus, hanno preso in mano la mia attività, insieme a Matteo e Claudio, che hanno sostenuto una grande mole di lavoro e impegni».

Subire un trapianto in piena pandemia. Che significa?

«Io sono immunodepresso e devo stare molto attento. La butto anche un po’ sul ridere, dicendo che quando sono uscito dall’ospedale ho trovato un mondo tutto sterilizzato, con mascherina e le distanze».

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