Coronavirus: programmati altri 200 tamponi nelle ditte del settore "carni" in Trentino dopo il focolaio alla Furlani con quasi 100 casi
Task force Covid in riunione questa mattina in Provincia a Trento, alla presenza dell’assessore provinciale alla salute; Stefania Segnana, e dell’assessore alle politiche sociali del comune di Trento, Mariachiara Franzoia.
Si stanno continuamente aggiornando gli esiti dei tamponi che verranno completati questo pomeriggio (relativamente al primo cerchio di contatti in particolare del megafocolaio alla Furlani Carni).
I risultati saranno forniti in serata comunica l'ufficio stampa della Provincia.
La situazione al momento appare sotto controllo, ma sono stati programmati altri 150-200 tamponi per completare l’indagine epidemiologica sul caso “carni” con il coinvolgimento di altre ditte del settore e l’obiettivo di bloccare sul nascere possibili contaminazioni.
Nel frattempo la Protezione civile sta sanificando l’ex caserma austroungarica alle Viote del Bondone dove i soggetti positivi emersi dai recenti screening - la maggior parte asintomatici - trascorreranno il periodo d’isolamento.
Le principali aziende trentine di lavorazione della carne fatturano oltre 250 milioni di euro e occupano più di 200 addetti.
Ma intorno a loro ruotano almeno altrettanti lavoratori e lavoratrici delle ditte appaltatrici, altre 200 persone in carico ad aziende e cooperative per lo più di fuori provincia, in buona parte stranieri, con un contratto regolare ma con molte meno tutele. Una giungla per rispamiare sui costi, denunciano i sindacati. Ed è in questa giungla che si sta diffondendo il Covid-19. Perché per i dipendenti della Furlani Carni e delle altre ditte committenti le regole e i protocolli anti-Coronavirus sono in linea di massima rispettati. Per le aziende degli appalti esterni no. È così che costano meno.
«Più che lavoratori interinali, sono dipendenti delle ditte appaltatrici» spiega Katia Negri, segretaria della Fai Cisl, che segue il caso insieme agli altri due segretari delle categorie sindacali degli alimentaristi, Elisa Cattani della Flai Cgil e Fulvio Giaimo della Uila Uil. «Si scambiano i lavoratori con le aziende committenti, passano dall’appalto di una ditta a quello di un’altra. È una vera e propria giungla, un po’ come i lavoratori stranieri in agricoltura, dove è un problema far rispettare le tutele».
In genere in queste ditte il lavoratore, spesso straniero, viene inquadrato ad un livello base, 1.000 euro al mese, e poi viene pagato a ore lavorate, cioè a cottimo. «Mentre con i suoi dipendenti la Furlani, come le altre aziende, applica i protocolli anti-Covid - sottolinea Negri - nelle ditte appaltatrici non sappiamo se vengono applicati».
Il sistema degli appalti è cresciuto in questi anni soprattutto nel settore della lavorazione della carne, dove le aziende trovano conveniente affidare all’esterno non solo servizi come i trasporti e la logistica, ma anche intere linee di produzione come il disossamento. La Furlani ad esempio, si legge nel bilancio, spende per il servizio esterno di disosso 3 milioni di euro l’anno.
«Le aziende restano con pochi dipendenti - afferma Negri - Il 30% degli addetti è dipendente diretto, il 70% lavora nelle ditte appaltatrici».
Tenuto conto delle diverse dimensioni occupazionali delle ditte (vedi box nella pagina a fianco), una stima generale sul settore può essere 50% interni e 50% esterni.
«Spesso sono cooperative di fuori che fanno intermediazione di manodopera in modo un po’ ambiguo - sostiene Negri - I lavoratori sono assunti regolarmente ma con un contratto diverso da quello dell’azienda appaltante. Per lo stesso lavoro, un lavoratore esterno può essere pagato la metà di uno interno. Spesso è la ditta appaltatrice che affitta un alloggio in cui dormono diversi lavoratori. Per risparmiare sulla manodopera, si favorisce un lavoro semi-regolare, grigio».