Il padre violento condannato: botte alla moglie, ai figli testa nel water e farina con i vermi se non mangiavano
L’uomo, un trentino, è stato giudicato colpevole ma non andrà in prigione. La donna, vittima di violenze, non avrà il «sostegno» economico" perché la legge è stata approvata dopo i fatti
TRENTO. A suo dire infilare la testa della figlia nel water e tirare l’acqua era un sistema educativo. Tre gradi di giudizio invece hanno confermato che quei metodi spartani, in “stile marines”, nell’ordinamento italiano sono illegali.
Il padre, trentino doc, è stato infatti condannato per maltrattamenti in famiglia ad una pena superiore ai 2 anni di reclusione ma inferiore a 3 anni e dunque non andrà in carcere. La sentenza di condanna è passata in giudicato nei giorni scorsi dopo che la Cassazione ha respinto anche l’ultimo ricorso dell’uomo, compagno e padre manesco.
Ma per la vittima, difesa dall’avvocato Romina Targa - la lunga battaglia legale si è chiusa con il sapore della beffa: la donna maltrattata, rimasta sola e senza lavoro, non ha diritto a ricevere il reddito di libertà perché le botte le ha prese quattro anni fa, prima cioè dell’entrata in vigore della legge che ha introdotto aiuti per le donne maltrattate e in difficoltà economiche. Il procedimento penale per maltrattamenti si distingue per la particolarità dei soprusi e delle vessazioni contestate all’imputato a danno della compagna ma soprattutto dei figli (solo uno era dell’imputato).
L’uomo pensava di educare i ragazzi con un metodo tutto suo: di fronte a comportamenti sbagliati da parte dei figli seguivano punizioni corporali. E così se la ragazzina andava al gabinetto e dimenticava di tirare l’acqua, il padre “padrone” le infilava la testa nello sciacquone.
Oppure se i figli non mangiavano quello che era stato preparato al pasto, per insegnare loro che non si butta via il cibo utilizzava farina con i vermi.
Questo sistema punitivo si affiancava a metodi maneschi più consueti come assestare ceffoni a chi non si comportava bene, compagna compresa.
La donna trovò la forza di denunciare il compagno violento che vene allontanato dalla famiglia e autorizzato a vedere i figli solo in ambiente protetto. Ma come spesso accade in questi casi, finite le violenze la vittima deve fare i conti con le difficoltà del vivere quotidiano.
Uno dei figli, disabile, aveva bisogno di sostegno che la madre non gli fece mancare, a costo di dover lasciare l’impiego perché da sola non poteva accudire i figli e allo tesso tempo lavorare.
Per far fronte a questo problema nel dicembre del 2020 è stato introdotto il “reddito di libertà”, destinato - precisa l’Inps - alle donne vittime di violenza, senza figli o con figli minori, seguite dai centri antiviolenza e dai servizi sociali nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza, al fine di contribuire a sostenerne l’autonomia. La misura, infatti, consiste in un contributo economico, fino a 400 euro mensili pro capite, concesso per massimo 12 mesi».
Era proprio la situazione della madre maltrattata che però si è vista bocciare la domanda. Questo perché le botte risalivano a quattro anni fa, prima cioè della nuova legge. «Questa dolorosa vicenda - sottolinea l’avvocato Romina Targa - ha impedito alla mia assistita per lungo tempo di lavorare, ma lo Stato non l’aiuta. Lascia perplessi il fatto che la scriminante per stabilire se la donna abbia subito violenza non sia la sentenza passata in giudicato (che è recente, ndr) ma l’attestazione fatta da servizi sociali e centro antiviolenza (chiamati a confermare fatti che potrebbero anche sfociare in un’assoluzione, ndr)».