Ruba alle Poste: ex dipendente condannata a due anni di reclusione per furto aggravato
Dopo le sentenze di primo e secondo grado la condanna è passato in giudicato: la Cassazione ha respinto anche l'ultimo ricorso della difesa, giudicato inammissibile
TRENTO. É stata condannata a 2 anni di reclusione (con la sospensione condizionale della pena) una ex dipendente delle Poste accusata di furto aggravato. La donna, poi licenziata per questi stessi fatti, era accusata di essersi impossessata di 5.000 euro prelevati dalla cassaforte dell'ufficio. L'imputata - difesa dall'avvocato Gabrio Stenico - ha sempre respinto le accuse, ma senza successo.
Dopo le sentenze di primo e secondo grado la condanna è passato in giudicato: la Cassazione ha respinto anche l'ultimo ricorso della difesa, giudicato inammissibile.
La vicenda risale al 31 luglio 2017. Il responsabile pro tempore dell'ufficio di Albiano rientrava al lavoro dopo essere stato sostituito durante la ferie da una collega proveniente da Lavis. Il passaggio di consegne fu rapido. Venne aperta, tramite password, la cassaforte: in totale c'erano 18.227 euro. Parte di questa cifra, per la precisione 15.900 euro, fu inserita in una busta riposta all'interno della cassaforte.
I restanti 2.327 euro finirono nel roller cash che in sostanza è un'altra cassaforte in uso allo sportello. Poi il responsabile dell'ufficio si allontanò per qualche minuto per andare nel locale tecnico a rilevare i dati relativi al consumo di energia elettrica. Infine, passate le 8, il direttore aprì l'ufficio facendo le prime operazioni.
Poco prima delle 9 la dipendente timbrava il cartellino per tornare al lavoro presso l'ufficio di Lavis. Il responsabile dell'ufficio di Albiano decideva di fare un nuovo conteggio del denaro conservato nella cassaforte. Questo perché mentre si trovava allo sportello gli sembrava di aver sentito il «bip» sonoro che segnala, trascorsi 120 secondi, l'apertura della cassaforte. Con sua grande sorpresa il responsabile dell'ufficio scopriva che mancavano 5.000 euro. Il dipendente avvisava i superiori della misteriosa sparizione dei soldi e chiamava i carabinieri. Contattava al telefono anche la collega comunicandole l'ammanco di denaro.
La donna rientrava ad Albiano dove ribadiva quanto aveva anticipato al telefono: negava di aver preso il denaro. Venivano dunque ricontati i soldi custoditi in cassaforte, ma il risultato non cambiava: all'appello mancavano due mazzette, in banconote da 50 euro, per un totale di 5.000 euro. Benché non ci fossero telecamere che possano confermare il «prelievo galeotto», secondo gli inquirenti l'autrice del furto non poteva che essere la dipendente di Poste.
Nel suo ricorso in Cassazione, al contrario, la difesa ha sostenuto che non c'erano certezze sull'identità del ladro visto che nell'ufficio c'erano almeno due persone. Le fonti di prova portate dall'accusa secondo l'avvocato Stenico non soddisfano il principio dell'«oltre ogni ragionevole dubbio».
Ma la Suprema corte ribatte che «nel caso di specie, la sentenza impugnata dà congruamente conto delle ragioni sia di ordine logico che fattuale per le quali ha ritenuto di confermare la pronuncia di condanna di primo grado, evidenziando, innanzitutto, quanto all'attendibilità del direttore dell'ufficio postale che ebbe a sporgere denuncia, come l'esposizione del fatto dal medesimo svolta abbia trovato seri riscontri di tipo logico-ricostruttivi nelle emergenze processuali, non limitati alle immagini della videocamera di sorveglianza, che pure avevano, sia pure in parte, consentito di ricostruire i comportamenti assunti dall'imputata dopo l'allontanamento del direttore».