Picchia il figlio con le ortiche, umilia e violenta la moglie: 40enne condannato a 6 anni e otto mesi
Lei doveva ubbidire e poteva uscire di casa solo per andare al lavoro (ma i soldi li gestiva lui) e per fare la spesa. Il ragazzino insultato “per farlo diventare uomo”
TRENTO. Gli insulti, le minacce, gli schiaffi, le violenze sessuali alla moglie. E gli insulti umilianti anche al figlioletto che almeno in un occasione è stato colpito con un mazzo di ortiche. Ortiche che poi sono restate lì, in bella mostra in un vaso sul mobile. Un monito per il piccolo perché si comportasse come un "vero uomo".
Con l'accusa di maltrattamenti e violenza sessuale è finito a processo un uomo (un marito, un padre) quarantenne che è stato condannato a 6 anni e otto mesi, pena confermata anche dopo l'appello. Sei anni e otto mesi che sono la pena per i tre anni da incubo fatti vivere alla sua famiglia. Un incubo raccontato dalla moglie quando ha trovato il coraggio, la forza di lasciare la casa dell'uomo, di trovare rifugio e aiuto nelle istituzioni e quindi portare davanti al giudice il marito-padrone con l'appoggio dell'avvocato Chiara Sattin con la quale si è costituita parte civile.
Un incubo che è stato vissuto a lungo in silenzio all'interno delle mura domestiche. Entrambi lavoratori e poi gli impegni con i figli, visti dall'esterno potevano rappresentare una famiglia "normale". Ma di "normale" all'interno di quel nucleo ci sarebbe stato poco. Perché - stando alla denuncia e agli accertamenti che sono stati fatti - era lui che dettava legge e imponeva il suo volere in quella casa. A partire da un atteggiamento prevaricatore nei confronti del figlio che veniva attaccato verbalmente perché aveva comportamenti che il padre non giudicava "da uomo vero". E che poi sarebbe stato colpito con un mazzo di ortiche per essere "raddrizzato". Ortiche poi sarebbero state lasciate in un vaso perché lui, il piccolo, sapesse che potevano essere usate ancora contro di lui.
Ma il bambino non era l'unico a subire i comportamenti dell'uomo. A patirne le conseguenze maggiori, la madre, la moglie. Minacciata e quindi costretta a subire rapporti sessuali. Trattata come una serva, sottomessa. E umiliata.
Tante le espressioni pesanti, umilianti appunto, con le quali la donna veniva chiamata da quella persona che aveva promesso di amarla e rispettarla. "Non capisci niente, non vali niente" sono fra le frasi frequenti che lui rivolgeva a lei e intimandole di ubbidire. E poi le minacce di morte, gli spintoni, gli schiaffi. Una vita, quella della donna, definita solamente dalle ore passate dentro casa e da quelle dedicate al lavoro.
Stando alla ricostruzione, infatti, l'uomo pretendeva un controllo massimo sulla moglie. E quindi le controllava continuamente i movimenti lasciandola libera solo di andare a fare la spesa e al lavoro. Libera sì di lavorare ma non di gestire il denaro che lei stessa guadagnava. Perché, sempre in base alla ricostruzione che poi è diventata la base per la condanna, era lui che doveva gestire tutto il denaro.
Tutto questo fino a quando la donna non ha avuto il coraggio, anzi la forza, di staccarsi da quella situazione che era tossica per lei e per i figli. E se ne sono andati. Lei ha chiesto aiuto e ha trovato chi l'ha potuta aiutare a ricominciare da capo una vita nella quale non c'è più spazio per le violenze e le vessazioni.