La tragedia del 3 luglio 2022: una ferita profonda che rimane aperta
A un anno dallo spaventoso crollo del seracco sul ghiacciaio, la memoria torna a quei giorni e alle undici vittime: Liliana Bertoldi, Manuela Piran, Gianmarco Gallina, Davide Miotti, Erica Campagnaro, Nicolò Zavatta, Filippo Bari, Paolo Dani, Tommaso Carollo, Pavel Dana e Martin Ouda
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TRENTO. Liliana, Filippo, Tommaso, Paolo, Nicolò, Davide, Erika, Gianmarco, Manuela, Martin, Pavel.
Bastano i nomi: ci si saluta, sempre, tutti, anche senza conoscersi, in montagna. Dalla montagna, un anno fa, non sono più tornati.
Era il 3 luglio, era domenica. Erano da poco passate le 13.40. Era una giornata splendida, tersa, calda. C'era un tempo "da montagna", come dicono i camminatori, gli innamorati, della vita in quota.
Lo sanno tutti che è pericolosa, la montagna: puoi scivolare da un sentiero, perdere l'equilibrio, può caderti in testa un sasso. Ma no, nessuno, immagina che sia la montagna a venire giù, a venirti addosso.
Nessuno lo pensava. Prima di un anno fa. Prima di averlo visto coi propri occhi: un enorme seracco di ghiaccio che muovendosi sotto la spinta dell'acqua, del ghiaccio sciolto dalle temperature anomale di quei giorni - ultima "spinta" dopo settimane anomale, mesi anomali, anni anomali - si è staccato dalla calotta sommitale, trascinando a valle blocchi di roccia, detriti, massi.
È stato calcolato che in pochi istanti siano piombati lungo la parete nord, 64.000 tonnellate di materiale tra blocchi di ghiaccio, blocchi di roccia, detriti, acqua. Il seracco in caduta aveva trascinato a valle il materiale sotto di sé a velocità impressionanti, viste le pendenze.
Una trappola da cui non si può scappare o cercare riparo. Erano state travolte e spazzate via decine di persone e non tutte erano riuscite a scampare al disastro.
Di quel giorno, resta nella memoria lo smarrimento: di fronte all'enormità dell'accaduto, di fronte all'imprevedibilità dell'accaduto. Di fronte all'assenza di cifre, riguardo alle persone che erano da cercare, soccorrere, ritrovare.In poche ore emergono le proporzioni del dramma: almeno cinque, poi sei vittime.
Il bilancio del 3 luglio si chiuderà a sette morti, otto feriti, tredici dispersi. Con solo tre delle sette persone trovate senza vita che avevano già un nome.
Un bilancio che poi purtroppo si aggraverà, con il centro della Protezione civile di Canazei che verrà trasformato nel luogo dell'impegno - base delle ricerche e dei soccorsi - e del dolore, con gli spazi in cui erano stati ricomposti i resti delle vittime. In alcuni casi minuti.
I giorni del dolore, del grande lavoro di tutte le realtà dell'emergenza, del Trentino e non solo: vigili del fuoco, Soccorso alpino, psicologi, medici, sanitari, forze dell'ordine. I giorni della pietosa opera del luogotenente Giuseppe Gaspari e del comandante del radiomobile di Cavalese Cristian Zanier, che hanno curato i rapporti con i parenti di vittime e dispersi e curato l'invio dei reperti al Ris di Parma.
Alla fine la conta ferale, il bilancio delle vittime, salirà a undici: la trentina di Levico Liliana Bertoldi di 58 anni, i vicentini Filippo Bari, 27enne di Malo, Tommaso Carollo, 48 anni di Thiene, Paolo Dani, 52enne di Valdagno, Nicolò Zavatta 22 anni di Barbarano Mossano), i padovani di Cittadella Davide Miotti, 51 anni e la moglie 44enne Erika Campagnaro, i fidanzati 36enni, trevigiani di Asolo, Gianmarco Gallina e Manuela Piran e i due cittadini della Repubblica Ceca Martin Onuda, 48 anni, e Pavel Dana di 46 anni.
Chi è sopravvissuto ha solo avuto fortuna e forse è per questo che quasi tutti faticano a ricordare, ad alta voce almeno.
A parlarne, di quel disastro impensabile al quale sono scampati senza sapere neppure come.
È passato un anno e a fotografare l'enormità di quello che è accaduto c'è l'umana inevitabile mancanza di certezze: la Marmolada è rimasta chiusa per mesi, dopo il disastro.
Con i nastri bianchi e rossi quasi comici non fosse stato per il ricordo del motivo per cui erano stati affissi, a mo' di divieto morale più che fisico, dato che bastava passare un po' più in là per andare. In quei nastri bianchi e rossi, in quella Marmolada chiusa per mesi e riaperta senza troppa convinzione - o meglio, senza certezze: potrà ricapitare? Chi può dire di no? Si può continuare a chiudere una montagna? Chi può dire di si? - c'è in fondo lo stesso sgomento di chi si è visto venire addosso la montagna. La stessa impotenza. Cosa si poteva fare allora? Niente, accadde l'impensabile. Cosa si può fare ora? Niente, nel breve termine. È stata colpa di qualcuno?
Dell'uomo, probabilmente, andando indietro nei decenni. Di nessuno, probabilmente, guardando a un anno fa.
L'unica differenza, enorme, per i cari delle undici vittime, è che quello sgomento, quell'impotenza, accompagnano ancora chi resta, tra dubbi e inquietudini ma che fanno da sfondo a una vita che continua. Mentre sono stati gli attimi finali per undici persone.
È passato un anno e le undici vittime vengono ricordate con una cerimonia solenne, per rendere loro omaggio. Non per ricordare: non servono cerimonie: la ferita resta lì, sempre aperta.