L’intervista/Il conflitto

Da Rovereto a Gaza per diventare medico: «Oggi situazione inumana»

Riccardo Corradini, roveretano, nel 2019 unico studente di Medicina a fare l’Erasmus nella Striscia: «Da giorni non ho più contatti con la famiglia che mi ospitò e con i miei amici. Dai miei colleghi lì ho imparato la resilienza». Oggi è a Kabul con Emergency

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di Laura Modena

ROVERETO. La prima e unica esperienza di tirocinio universitario compiuta da un europeo nella Striscia di Gaza l'ha vissuta lui, Riccardo Corradini. Studente di Medicina a Siena, nel 2019, a ventisei anni, ha chiesto di entrare a Gaza city per quattro mesi. Il suo lavoro tra le corsie degli ospedali, le lezioni all'Islamic University of Gaza e la quotidianità con i colleghi palestinesi sono poi diventati il film "Erasmus in Gaza", presentato due anni dopo allo Human Right Film Festival di Berlino. Attualmente specializzando in Chirurgia generale all'Università di Verona, il giovane medico roveretano dal luglio scorso si trova in Afghanistan. Rimarrà fino a Natale, continuando a operare come chirurgo d'urgenza per Emergency negli ospedali di Kabul.

Dottor Corradini, come può descrivere la quotidianità nella Striscia di Gaza?

«Il discorso va distinto in due macro categorie: il periodo di pace e il periodo di guerra. Pace nella Striscia di Gaza vuol dire che più o meno ogni due mesi si verificano due o tre giorni di bombardamenti. È un posto dove la maggior parte della popolazione incontra difficoltà per procurarsi da vivere, ogni giorno. Normalmente la luce elettrica è garantita per tre, massimo quattro ore al giorno. Sono disponibili circa 90 litri di acqua pro capite, molto al di sotto della soglia stabilita dall'Onu, e mancano i medicinali di base. Parliamo di 2 milioni e 300mila persone in 360 chilometri quadrati che vivono costantemente in queste condizioni. La guerra invece è quello che c'è adesso, con un milione e 400 mila sfollati, più della metà. Ma anche nel periodo di pace c'erano già otto campi profughi. In questi giorni non c'è acqua, mancano rifornimenti adeguati di cibo, farmaci e strumenti di cura indispensabili. Non c'è carburante per far funzionare gli ospedali e senza elettricità la sala operatoria non lavora».

Ha vissuto anche lei l'esperienza dei bombardamenti?

«Sì, due volte. Non esistono sistemi di allarme ma sai che stanno per arrivare gli aerei quando è in atto una escalation di tensione tra il governo della Striscia e il governo israeliano. Non ci sono bunker o luoghi dove proteggersi. L'unica forma di difesa è la speranza di non essere colpiti. La prima volta sono stato evacuato in quanto "internazionale". La seconda volta sono rimasto in casa, come gli altri».

La popolazione ha un'età media di 18 anni e il 70% ha lo status di rifugiato…

«Sì, è un luogo con una popolazione giovanissima e una crescita a piramide, tipica dei Paesi del Terzo mondo. Un mio coetaneo qualsiasi vive senza diritti fondamentali, ha già vissuto un'occupazione, ha attraversato cinque o sei guerre ed è sotto la minaccia costante di bombardamenti. Ormai chiunque viva ora in Palestina è nato e cresciuto in regime di apartheid. Lo dicono gli studi accademici degli ultimi 15 anni, non io. Sono passati trent'anni dagli accordi di Oslo che avrebbero dovuto sancire la pace tra Israele e Palestina. Penso che la domanda che abbiamo il dovere di porci oggi sia da garanti dei diritti: cosa è successo in questi trent'anni? Abbiamo delle responsabilità?».

Un medico italiano a Gaza city prima di lei non era mai entrato. Come è stato accolto?

«Lo straniero a Gaza non è visto con sospetto o pregiudizio. Anzi, da colleghi e amici, o anche nei locali e nei negozi, sono sempre stato accolto con semplicità e spontaneità. Con Hamas ho avuto contatti solo all'ingresso nella Striscia, per i documenti».

Quale situazione sanitaria ha trovato a Gaza city?

«Nel periodo di pace, pur con fatica, si riescono a gestire i problemi anche con gli ospedali pieni. Ma nella fase attuale manca l'accesso alle cure perché il numero dei pazienti è esorbitante. La situazione adesso è inumana, i pazienti sono sdraiati per terra e vengono operati sui lettini lungo i corridoi. Con una conseguente gestione dell'operazione e dei risultati ovviamente discutibili. Non si riesce nemmeno a fare un'anestesia generale e si procede all'intervento chirurgico con analgesia superficiale. L'Ocha (Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento delle emergenze umanitarie) dà notizie di ospedali indirettamente colpiti dai bombardamenti e danneggiati. Il reparto di neonatologia e chirurgia neonatale del Shifa Hospital è completamente distrutto così come l'università che frequentavo io».

Come riescono a formarsi i suoi colleghi medici nella Striscia di Gaza?

«Il linguaggio medico è universale e quindi viene applicata la letteratura internazionale. Il livello degli atenei è al pari degli standard occidentali, così come i tirocini per i medici. Dalla chiusura del muro (la "barriera di separazione israeliana") la cooperazione internazionale garantisce l'arrivo di specialisti da più parti del mondo, contribuendo così alla condivisione delle competenze. Nella Striscia sono all'avanguardia nei protocolli, ma non hanno farmaci e medicine. Quello che manca non è l'oncologo che sappia capirti, ma il chemioterapico».

Come vengono affrontati i traumi psicologici?

«Esiste una forma di supporto per gli aspetti psicologici che non è però adeguata ai numeri. Come tutti i tipi di cure nella Striscia, non sono all'altezza dei bisogni della popolazione. Nella maggior parte dei casi la cura è quella che definirei un conforto collettivo, un aiuto reciproco».

Cosa ha imparato dai medici di Gaza?

«Più che gli aspetti professionali ho ammirato la resilienza che hanno tutti nella Striscia e che anche io vorrei acquisire. Sia i medici che le persone comuni hanno una capacità che sembra quasi innata di mettersi in gioco ogni giorno. Nonostante le avversità che quotidianamente li affliggono combattono per realizzare i propri sogni».

Ha mantenuto i contatti con le persone che ha conosciuto a Gaza city?

«Ho sempre sentito la mia famiglia ospitante e i miei amici. Ora sono sfollati e si sono diretti verso il sud della Striscia. Ma da alcuni giorni non ho più contatti, potrebbero essere morti».

Cosa pensa di ciò che sta accadendo in queste settimane?

«Partiamo dal presupposto che migliaia di persone sono morte sul territorio di Gaza e di Israele ed è inaccettabile. Penso che quello che viene fatto a livello politico non sia sufficiente per spingere la comunità internazionale a intraprendere un percorso di pace effettivo. Penso anche che non ci sia una vera pressione mediatica mirata a spingere le diverse posizioni diplomatiche a cercare una soluzione. Anzi, si soffia su un fuoco acceso da sempre».

Cosa l'ha spinta a operare prima nella Striscia di Gaza e ora a Kabul?

«Questo mio viaggio professionale e umanitario ha principalmente due motivazioni. Vorrei diventare un chirurgo d'urgenza e questi sono posti dove si è drammaticamente esposti a una casistica elevata di vittime di politraumi e ferite da arma da fuoco. Poi c'è l'aspetto umanitario. Penso che il diritto alla cura sia universale e spetti a tutte le persone su questa Terra. Vorrei provare a contribuire con la mia esperienza, assistendo popolazioni più sfortunate della nostra».

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