Era «rossa» la scuola di Mori
È nel ricordo di molti che, tra il 1967 e il 1968, la Lettera a una professoressa ebbe sui giovani contestatori italiani un’influenza maggiore che non i testi di Marx e di Marcuse.
Quel libro denunciava, senza reticenze e in modo documentato, le inadempienze e le distorsioni del sistema scolastico nazionale. Un sistema che lungi dallo svolgere i compiti per cui era stato, in primis, predisposto (rendere operante il diritto allo studio previsto dall’articolo 34 della Costituzione), aveva fatto e continuava a fare della selezione, già a livello della scuola dell’obbligo, il suo scopo principale. Con il bel risultato (ma voluto, cercato) di sancire con il crisma della legittimazione burocratica, le differenze tra gli alunni già prodotte e fissate dalla società classista, anziché impegnarsi ad eliminarle.
Ma tutte le idee esposte in quel libro erano un appello a ribellarsi contro le ingiustizie. Ed è per questo che fu letto e fatto proprio dal movimento studentesco delle origini.
Ne nacquero significative esperienze di volontariato in «scuole popolari» che allo spirito della «Lettera» si richiamavano esplicitamente.
Poi i giovani universitari smisero di occuparsi di istruzione e di scuola per seguire altre strade. Non tutti però. Alcuni di essi, divenuti insegnanti, provarono a mettere subito in pratica la lezione di don Milani.
Così accadde - e fu uno dei casi più clamorosi - nella scuola media «Malfatti» di Mori, in Trentino, dove agli inizi degli anni Settanta uno sparuto gruppo di docenti fece i primi tentativi di innovazione dell’insegnamento. In principio da soli, poi, nell’anno scolastico 1971-72, sostenuti francamente dal preside incaricato Luigi Emiliani, autentica figura di democratico, essi lavorarono con serietà ed entusiasmo per opporsi alla prassi consolidata della bocciatura, della «somministrazione» di argomenti cristallizzati, dello studio esclusivamente individuale, della disciplina ferrea ed oppressiva.
E, al contrario, per introdurre il lavoro interdisciplinare e di gruppo, la ricerca di contenuti didattici aperti alla realtà socio-economica e psicologica dei ragazzi, un rapporto non autoritario tra docenti e allievi, un modo di insegnare che puntava alla formazione di una diffusa coscienza critica, la proposta di sostituire il comitato scuola - famiglia, egemonizzato dalle forze della conservazione e non rappresentativo, con l’assemblea di tutti i genitori. Se a questo aggiungiamo l’istituzione (sempre sotto la guida illuminata del preside Emiliani) del Doposcuola che gli animatori, con le loro progettazioni di attività alternative a quelle del mattino, seppero trasformare in occasioni di formazione coinvolgente e di genuina crescita culturale, la scuola media di Mori appare davvero, ancora oggi, per quello che fu (di certo nella parte che vi profuse energie e ingegno): un laboratorio di sperimentazioni didattiche coraggiose e precorritrici.
Questo programma di rinnovamento non ebbe però vita facile.
I docenti progressisti, accusati di voler sconvolgere le «sane tradizioni scolastiche», incontrarono ben presto la dura opposizione dei colleghi ostili al cambiamento, dei notabili del paese (sindaco, parroco, presidente dell’Associazione Famiglie) nonché dei rappresentanti dei genitori del Comitato Scuola - Famiglia. Tutti schierati contro quella che venne additata come «la gestione rivoluzionaria della scuola rossa»; tutti intenzionati a riportare l’ordine alterato da un pugno di insegnanti (alcuni dei quali venuti «da fuori») sovversivi. La scuola di Mori rimase a lungo sotto i riflettori della stampa locale e nazionale. Nel maggio del 1972 persino l’onorevole Flaminio Piccoli, potente leader della Democrazia cristiana, in un infuocato comizio tenuto a Mori, tuonò contro quel «manipolo di estremisti» promettendo di riconsegnare la scuola del paese «ad altri insegnanti, al decano e a quei genitori ai quali sta veramente a cuore la sorte dei propri figli».
Verso la fine di quello stesso mese il Ministro della Pubblica Istruzione inviò a Mori un ispettore per «convincere» il preside e i docenti impegnati nella sperimentazione a desistere dalla loro avventura didattica. L’uno e gli altri non si piegarono.
A Luigi Emiliani fu tolto l’incarico di preside e, successivamente, allontanato dalla scuola di Mori anche come insegnante, fu trasferito d’ufficio a Lizzana.
Nell’anno scolastico 1972-73, una nuova preside, arrivata dalla Lombardia, con preciso mandato, portò a termine la «normalizzazione».
Ora dell’intera vicenda ci dà conto un importante volume, Con il vento di Barbiana. La scuola "rossa" di Mori, pubblicato meno di un mese fa dalla casa editrice Erickson (318 pagine, 24 euro). L’autore è Mario Caroli che di essa fu uno dei protagonisti più attivi fin dall’inizio. Era uno di quelli «venuti da fuori». Un giovane pugliese, fresco di laurea in lettere a Firenze, che giunse a Mori nel gennaio del 1970 portandosi dentro il vento di Barbiana e lo spirito migliore del Sessantotto. E che fu subito pronto a tuffarsi nell’impresa di costruire, insieme ai suoi sodali, un modo nuovo e più giusto di fare scuola.
A distanza di quasi cinquant’anni Caroli ha scritto, con mano sicura, questo libro che ha spessore e verità perché ci aiuta a capire - ora attraverso un racconto di taglio letterario, ora con la forza dei documenti - che l’esperienza di Mori è una pagina viva della scuola italiana e che questa scuola ha ancora bisogno del «vento» di Barbiana.
Il libro di Mario Caroli sarà presentato a Mori domani, lunedì 19 dicembre 2018, alle ore 20,30 presso la Scuola Media «B. Malfatti» (via Giovanni XXIII, n.64).