La storia di Renzo Videsott il trentino che fu chiamato a dirigere il Gran Paradiso
Era il 4 settembre del 1860, centosessant'anni fa, quando due inglesi accompagnati da due guide savoiarde misero piede per primi sulla vetta del Gran Paradiso, in Valle d'Aosta, il poderoso "quattromila" interamente in territorio italiano, culmine del gruppo al quale dà il nome.
John J. Cornwell e W. Dundas raggiunsero la cima salendovi in quella fredda giornata dall'Alpe di Moncorvé insieme alle guide Michel Payot e Jean Tairraz, che a lungo intagliarono gradini nel ghiaccio seguendo grosso modo quella che è oggi considerata la via normale da ovest lungo il ghiacciaio del Gran Paradiso (per intendersi, quella che si segue dal rifugio Vittorio Emanuele II). I quattro furono però costretti a scendere rapidamente per il brutto tempo incipiente, così il giorno dopo Tairraz e Cornwell tornarono sulla vetta per godere del panorama. L'ascensione ai 4.061 metri della cima fu portata a termine dopo che a Cogne, in Valsavarenche e nelle altre valli del gruppo erano giunti escursionisti, artisti e viaggiatori, autori di diari di viaggio e di immagini che avrebbero fatto conoscere queste montagne fuori dai confini valdostani. Fra i primi, il disegnatore e pittore William Brockedon, che descrisse la Valle di Cogne, lo scienziato scozzese James David Forbes, l'alpinista Arthur Thomas Malkin e l'autore di una celebre opera, «The Italian Valleys of the Pennine Alps», il reverendo Samuel William King. Anche alcune viaggiatrici britanniche descrissero nei loro diari, frutto di pioneristici tour alpini, le valli del Gran Paradiso, da Lady Henry Warwick Cole a Jane Freshfield, madre dell'alpinista Douglas William.
Nove anni dopo l'ascensione del quartetto, l'avvocato Pier Giuseppe Frassy di Valgrisenche ed Eliseo Jeantet di Cogne raggiunsero la vetta più alta dalla parete est della montagna, e di lì a poco gli alpinisti italiani iniziarono a realizzare nuove ascensioni un po' in tutto il gruppo del Gran Paradiso. La salita di Frassy della parete est - hanno osservato Franco Fini e Gigi Mattana nel bel volume «Il Gran Paradiso» (Bologna, 1977) fu peraltro una prova di abilità non comune per l'epoca, dal momento che, senza ramponi, i due superarono il pendio gelato che presenta un'inclinazione media fra 55 e 60 gradi.
Il rifugio situato lungo la via normale e intitolato a Vittorio Emanuele II, il re cacciatore, venne realizzato nel 1884 a 2775 metri in riva al laghetto di Moncorvè. La guida alpina Emile Rey di La Saxe (Courmayeur), soprannominato il «principe delle guide», lavorò come falegname al rifugio durante la costruzione. Al primo edificio venne affiancato negli anni Trenta il rifugio "nuovo".
Ma il Gran Paradiso non è stato solo un «terreno di gioco» alpinistico: nell'Ottocento, ospite illustre di quelle valli era Vittorio Emanuele II, che iniziato alla caccia allo stambecco e al camoscio dal fratello Ferdinando, fece poi realizzare con manodopera locale una serie di strade e alcune case di caccia. Il sovrano frequentò un po' tutte le valli del gruppo, specialmente la Valsavarenche, fino al 1876. Le Regie patenti, l'istituzione delle riserve e il sistema di sorveglianza dei sovrano sabaudi contribuirono a salvaguardare gli stambecchi del Gran Paradiso, oggi simbolo del Parco nazionale omonimo. Carlo Felice proibì la caccia allo stambecco, che era già scomparso da gran parte delle Alpi, nel 1821. Nel 1856, Vittorio Emanuele II dichiarò le montagne del Gran Paradiso riserva reale di caccia e all'inizio del Novecento cedette la proprietà e i diritti di caccia allo Stato. Nel 1922 venne istituito il Parco nazionale, primo in Italia. Nel secondo dopoguerra, dopo che la popolazione di stambecco aveva subito un preoccupante calo numerico, a dirigere il Parco fu nominato il trentino Renzo Videsott, che si dedicò con passione e competenza al suo lavoro. Il professor Franco Pedrotti alcuni anni fa ha raccolto in un bel volume le lettere di Videsott («Il Parco Nazionale del Gran Paradiso nelle lettere di Renzo Videsott», Temi, Trento 2007) e nella presentazione, Luciano Caveri ha riconosciuto il ruolo fondamentale del direttore trentino: «Se gli stambecchi, in un immaginario pantheon del Gran Paradiso (nomen omen), dovessero scegliere un nume tutelare - che ha evitato con passione la scomparsa della specie nel cruciale secondo dopoguerra - il nome da incidere nella roccia sarebbe quello del veterinario Renzo Videsott».
Oggi, le strade reali di caccia sono percorse da escursionisti e alpinisti che visitano il grande Parco; fra gli itinerari più frequentati, ci sentiamo di ricordare quello che da Pont Valsavarenche - ultima località della valle ad oltre 1900 metri di altezza - conduce al Colle del Nivolet. Il sentiero ripercorre una delle strade sabaude di caccia ed offre una bella veduta sulle vette del Gran Paradiso passando per la croce dell'Arolley, o di Rolley, punto panoramico favorito al termine di una ripida salita fra larici e cascate. Al Nivolet, dove una delle reali case di caccia è oggi un rifugio, si entra in territorio piemontese.