Samaden: San Patrignano fu un miracolo, io non ho mai visto catene o costrizioni

di Paolo Micheletto

Federico Samaden, qual è il suo giudizio sul docu-film «SanPa: luci e tenebre di San Patrignano» di Netflix?
La realtà può essere osservata da diversi punti di vista, e lo sguardo è la conseguenza degli obiettivi che abbiamo. Ho guardato le cinque puntate. In questo caso ho visto una grande operazione commerciale: è stato costruito un prodotto, con grande professionalità. Ogni cosa è stata scelta con un obiettivo, a iniziare dalla scelta delle persone, del loro tono della voce e di quello che dovevano dire.

Quale obiettivo?
Massimizzare i profitti. Netflix è una multinazionale. Ho visto un prodotto costruito non su principi etico - morali, ma commerciali.

A discapito della verità?
Il docu-film trasmette uno sguardo che non è lo stesso che hanno le migliaia di persone che sono transitate in quel luogo, ci hanno vissuto e si sono salvati la vita. È uno sguardo senza anima e cuore.

Lei come avrebbe fatto?
Me lo sono chiesto. Per attrarre il più possibile le persone agisci sul torbido, perché le cose lineari fanno meno audience. Ma questa operazione messa in piedi da Netflix è stata fatta anche in passato: una roba trita e ritrita, con cose già dette e processi chiusi. È chiaro che siamo nel 2021 e Netflix ha molto più risalto degli articoli dell’epoca.

Le catene alle caviglie, le costrizioni, gli eccessi. Non si poteva non parlarne.
Le catene? C’è stato un processo, che all’epoca ha fatto scalpore.

Lei le ha viste?
No, non le ho viste. Quando sono entrato io erano una cosa passata. Il processo era terminato. Ne è seguita una grande operazione collettiva che ha messo in evidenza le criticità e ha capito il senso. Ma questo docu-film può avere un effetto positivo, a una condizione.

Quale?
Il docu-film, anche se in maniera non equilibrata, ha rimesso pesantemente sul tavolo la parola droga. Forse non se ne sono resi conto, perché l’obiettivo era andare a “prendere” Muccioli a 25 anni dalla morte. Io vorrei che si parlasse non della violenza di San Patrignano o di Muccioli, ma della violenza che c’è nella droga. Ogni tossico ha una parte di sé che fa violenza a un’altra parte, quella più bella e positiva. Io ho sempre sostenuto l’opposto di ciò che Netflix sostiene.

Vale a dire?
Che San Patrignano è e rimane una sorta di miracolo.

È questo il giudizio storico che lei dà di SanPa?
Sì. Un miracolo. Un luogo che attira tonnellate di violenza portata dai ragazzi che arrivano in comunità e che ancora adesso è collegato ai principi e all’approccio umano che SanPa ha sempre avuto.

Il “metodo” non è quello delle catene, quindi.
No, il metodo è quello che accoglie i ragazzi e sana la violenza. E io non ho mai ricondotto il tutto a una sola persona.

Lei per quanti anni è stato ospite a San Patrignano?
Dal 2 gennaio 1986 al settembre 1989.

Poi è diventato il responsabile della comunità di San Vito, a Pergine. Lei faceva parte del “cerchio magico” di Muccioli?
Ma quale cerchio magico. Nel giugno 1989 avevo finito il mio percorso e stavo per tornare a Milano. Vincenzo sapeva che amavo le montagne e i boschi e un giorno mi dice: «Prepara lo spazzolino che andiamo in montagna». Per due mesi rimango a San Vito, che allora ospitava d’estate i bambini che vivevano in comunità. Il 19 agosto di quell’anno, di fronte al cedro deodara che mi piaceva guardare nel tardo pomeriggio d’estate, mi viene l’idea di aprire una comunità e di ospitare i ragazzi.

Muccioli cosa le disse?
Io mi sentivo piccolissimo, mi chiedevo: come farò? Lui mi rispose: non pensare mai di essere bravo tu, fai del tuo meglio con il cuore onesto e pulito. E vedrai che l’aiuto ti arriva dall’alto. Questa frase ha trovato riscontro decine e decine di volte, nella mia esperienza. Ed è ciò che accade da 40 anni a San Patrignano, ogni giorno.

Il metodo Muccioli non prevedeva la violenza?
Il medodo di San Patrignano è un concentrato di ascolto, dedizione, affetto, accompagnamento, amore rigoroso. Il fatto straordinario è la quantità di bene che San Patrignano è riuscito ad opporre alla droga, mantendendo sempre una dimensione familiare. Antonietta Muccioli (moglie di Vincenzo, ndr) sapeva i nomi di tutti i ragazzi, anche quando erano migliaia.

Ma dia un giudizio sulle “ombre” di San Patrignano. Non solo i metodi costrittivi, ma anche l’uccisione di Roberto Maranzano, assassinato a San Patrignano e il cui cadavere venne trasportato in Campania.
Non sta a me dare un giudizio. Dico che la gestione di una comunità è complessa, mi meraviglio - parlando di Maranzano - che sia accaduto una volta sola. Il tratto distintivo di quel luogo è l’amore. Ma il pensiero di Vincenzo era chiaro, ed emerge dal docu-film.

E cioè?
Se tu sei un tossicodipendente e mi chiedi una mano, non hai bisogno di me adesso, perché sei motivato. Ma domani mattina quello che stai dicendo lo rinnegherai, altrimenti non saresti nella condizione che sei. Ed è in quel momento che hai bisogno che io ti ricordi cosa abbiamo deciso insieme, e che ti sostenga come un padre di famiglia. Se un genitore vede un figlio che vuole buttarsi dalla finestra non può solo parlargli, ma fare altre cose. Ricordatevi che in questi casi il confine tra la vita e la morte è molto sottile.

Muccioli è stato per anni l’uomo più osannato d’Italia. Poi c’è stato accanimento nei suoi confronti?
Certo. Ricordo una sua frase nel pieno delle polemiche sul caso Maranzano. Venne a Trento e mi disse: mi stanno sparando addosso, non hanno capito che non sono indistruttibile. Non ho mai compreso il senso dell’accanimento di una parte nei suoi confronti. Ripeto: se vogliamo oggi abbiamo l’occasione di rimettere al centro la parola droga.

A partire da cosa?
Dall’assenza dello Stato. Lo sa che c’è una legge del ‘90 che non è mai stata aggiornata? Lo sa che da anni non si fa una conferenza nazionale sulla droga? Lo sa che il Dipartimento politiche antidroga non è certo tra le priorità delle politiche del governo? Oggi parlare di droga vuol dire parlare solo di cannabis light.

L’opinione pubblica è troppo favorevole alle droghe leggere?
Vedo una grande spinta della comunicazione nell’affermare la bontà di una canna. Ma cosa c’è di buono nel farsi una canna, che ti apre la porta verso altre droghe e ha un impatto negativo sul cervello?

Lei ha rotto con San Patrignano?
Sono andato via nel 2008, non c’era un buon feeling con Andrea Muccioli. Sono andato via senza averlo mai messo nel conto: mi piaceva stare a San Vito, era la mia vita e pensavo che sarei morto di vecchiaia a San Patrignano. Io non ho mai preso uno stipendio, non è mai stato un lavoro. Avevo scelto San Patrignano perché dava un senso alla mia vita. A cinquant’anni mi sono trovato fuori e questo mi ha procurato parecchio dolore e fatica,

Non è più tornato a San Patrignano?

Prima del Covid ci andavo spesso, prima di tutto perché lì ho tanti amici.

Si emoziona ancora quando torna?
Ogni volta sento lo stesso sapore di casa. L’energia che San Patrignano ha non è solo lì, ma abbraccia tante persone che sono in giro per il mondo e che si sono salvate in quel luogo. Il senso di appartenenza non verrà mai meno.

Ma la comunità ha ancora un senso come risposta alla droga?
Servono comunità anche per i ragazzi di 14-15 anni.

Residenze dove ospitare ragazzi così giovani?
Sì. Le faccio un esempio classico: un giovane si fa delle canne e la famiglia si trova subito impreparata. Il problema viene minimizzato ma il ragazzo nega sempre, entrando in un mondo falso che crea problemi con la famiglia. A quel punto entrano in scena i servizi sociali con i loro tempi biblici e pure il Serd, dove gli dicono: uno che si fa le canne per noi non è un caso così drammatico. Intanto il giovane peggiora, trova sul mercato ogni tipo di droga e magari viene affrontato come un problema psichiatrico. Ecco perché è così importante mettere in campo le “comunità di tregua”.

È difficile uscire dalle comunità?
Un altro falso. Le comunità sono ricchezze enormi per poter riprendere in mano la propria vita. Amarsi e dirsi addio: una delle tanti frasi che mi ha insegnato Muccioli.

Lei da pochi giorni è presidente della Fondazione Demarchi. Con quali obiettivi?
Qui c’è una potenzialità enorme, ho incontrato persone che mi hanno colpito per la loro passione e il loro impegno. Lavoreremo alla ricerca di nuovi modelli di welfare di montagna, di sviluppo del territorio, di crescita sana dei giovani. Affronteremo sia il problema delle dipendenze giovanili e della dispersione scolastica sia il mondo degli anziani, con le opportunità e le carenze. Penso alla Fondazione Demarchi come a un luogo di “incrocio” tra generazioni e a un punto di riferimento per tutti i giovani che vogliono fare qualcosa di buono.

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