Perché alle bambine si regalano le bambole: da rituale a imposizione del genere

TRENTO - Mi portavo sempre nel letto la bambola; 

gli esseri umani hanno bisogno di amare qualcosa e,

in mancanza di un oggetto più degno di tenerezza,

mi studiavo di provare piacere amando e vezzeggiando

un piccolo idolo sbiadito, malridotto come uno spaventapasseri.

Charlotte Brontë, Jane Eyre


L'antropologia culturale si è occupata di genere femminile, di rituali di iniziazione di entrambi i sessi, di educazione e di ruoli all’interno della famiglia e della società nelle diverse culture del mondo fin dagli albori della nascita della disciplina.
L’antropologo a cui dobbiamo molto in questo ambito è sicuramente Arnold Van Gennep che con il suo I riti di passaggio ha permesso ad inizio Novecento il nascere di un filone di interesse scientifico ancora oggi molto seguito. Van Gennep utilizzando le categorie di interpretazione dei rituali di iniziazione delle popolazioni extraeuropee è andato a sondare attraverso il suo lavoro di ricerca anche la nostra realtà europea.

Mary Douglas in Questioni di Gusto (Il Mulino) ad esempio ha interpretato la fiaba di Capuccetto Rosso come una storia iniziatica per le giovani ragazze che solo ascoltandola in modo conscio da adolescenti ne capivano il senso profondo rispetto a quando erano più piccole. L’antropologa inglese infatti aveva ritrovato una versione originale molto antica della fiaba di Perrault in una particolare zona della Francia e aveva scoperto che veniva utilizzata dalle donne più anziane per introdurre le fanciulle nell’età puberale e quindi nella conoscenza dell’attività sessuale e procreativa.

Sembra che ci sia nelle società la necessità di segnare questi passaggi e di associare ad essi anche oggetti, storie, immagini che spieghino cosa accadrà dopo. Molte culture extraeuropee studiate nel tempo dagli antropologi hanno nel proprio corpus culturale una serie di racconti orali, associabili alle nostre favole per bambini, e azioni che preparino il passaggio, guidino durante il passaggio, permettano l’ingresso nel nuovo status. I rituali femminili in diversi continenti riguardano prevalentemente la sfera sessuale, hanno come limite temporale l’arrivo del primo menarca, proseguono con le prescrizioni per la gestante, misurino il momento di attesa e di manifestazione della gravidanza, scandiscano con precise attenzioni la fase delicatissima del parto, rassicurano i giorni successivi dove la puerpera è massimamente in pericolo sia per la propria vita fisica sia per la propria vita spirituale (attacchi di spiriti del male o negativi a lei e al bambino o bambina). Le donne più anziane, o che hanno già attraversato queste fasi, si occupano delle donne più giovani o delle ragazze che per la prima volta saranno iniziate alla conoscenza dei segreti di questo passaggio di sviluppo fisiologico, le preparano al loro nuovo ruolo sociale.

Dall’alba dell’umanità giunge a noi un’interessante e suggestiva testimonianza di questi rituali dove trasformazioni fisiche e apprendimento di un ruolo specifico sembrano fondersi in un’unica strada da percorrere. Immaginiamo di trovarci in Dordogna, una regione della Francia centro-occidentale caratterizzata da piccoli borghi e da tanti spazi naturali. Il consiglio è di raggiungere il luogo di nostro interesse in treno o in automobile per poter immergersi nell’ambiente tipico della zona. Arriviamo quindi nella valle solcata dal piccolo fiume Beune in Aquitania non lontano dal famoso sito preistorico di Lascaux e troviamo un particolare riparo (Abri) sottoroccia che all’inizio del Novecento mise in luce alcuni bassorilievi di pregevole fattura. Trovati allora da un medico, il dottor Lalanne (1912) e definiti sotto il profilo culturale dall’Abate Breuil vennero resi famosi da Campbell che li interpretò nel suo testo The Masks of God: Primitive Mythology (1959).

Una nuova rilettura avvenuta circa cento anni dopo (Expression, 2018; Altrestorie 53, 2018) ha permesso di rileggere la funzione di queste opere che possono essere definite come parte integrante e preminente in un contesto iniziatico di giovani donne di 25 mila anni fa.

Le sculture preistoriche se lette insieme possiedono infatti un fil rouge che dona loro un senso: sono delle rappresentazioni del ciclo vitale femminile dalla potente efficacia didascalica. Nello stesso luogo infatti troviamo la rappresentazione della divinità della fertilità femminile (Dea Madre), incinta, legata ad un animale totemico specifico e rappresentata come collezione di animali simbolici femminili e una sequenza di altre sculture specifiche. Abbiamo infatti la descrizione di un parto nella posizione anatomica naturale che da sempre l’essere umano ha utilizzato per la nascita (e non la nostra ospedalizzata che non permette più di comprendere appeno il rituale della nuova vita), la rappresentazione di una donna con nella pancia un bambino anch’essa legata all’animale (il bisonte), una donna con nella mano destra una vulva e lungo lo stesso braccio un bambino (probabile rappresentazione della levatrice) e infine la donna matura con uno speciale copricapo che la differisce dal resto delle altre donne, come in molte culture mondiali accade per il successivo rituale di passaggio (età adulta - età matura/anziana).

La nuova interpretazione delle sculture permette di definire quindi un luogo sacro di iniziazione femminile dove le ragazze smettevano di fare le bambine e di giocare e imparavano a diventare donne, capaci di riprodursi, accezione fondamentale nella cultura paleolitica di cacciatori-raccoglitori e apprendevano grazie alla guida delle donne anziane cosa accadeva al loro corpo, sapendo così gestire questo momento vitale.

Se riflettiamo sulla nostra quotidianità, cosa accade oggi alle ragazze che hanno il primo menarca? Nulla, nemmeno una spiegazione tranquillizzante, solo un senso di vergogna e di impurità. Siamo sicuri che, antropologicamente, sia questa la natura corretta delle cose?

Le bambine, pur tenute allo scuro per una certo periodo di questi accadimenti naturali, fino a qualche decennio fa erano instradate a percorrere la propria strada sociale e a ricoprire il ruolo che una società benpensante e patriarcale, come quella borghese del XIX secolo aveva deciso per loro, attraverso le innocenti manipolazioni di un gioco, che potremmo definire universale.

La bambola, che ha profondissimi significati nelle culture mondiali passate e recenti europee ed extraeuropee (si pensi solo al ruolo della bambola nei rituali vodoo o delle bambole dei Gesù bambini o delle Marie bambine conservate nei luoghi sacri o anche negli altari domestici, o del ruolo della bambola nella cultura romana) ha assunto anche un ruolo significativo per la nostra argomentazione… Si è trasformata in un elemento profondamente simbolico posto volutamente tra le mani delle fanciulle. L’antropologia culturale non trascura quindi questi giochi di bambole per le femmine o di cavallucci per i maschi perché raccontano molto di più di quello che in apparenza rappresentano.

Soprattutto in tempi passati quando i giochi erano semplici e spesso venivano costruiti autonomamente dai genitori o venivano tramandati di figlio in figlio all’interno di quel processo di rivitalizzazione della memoria familiare oggi sempre più evanescente a causa della società dei consumi che spinge a volere sempre l’ultimo modello o per lo meno quello nuovo, le bambole erano una modalità per istruire le ragazze al loro futuro ruolo sociale di madri e mogli.

Queste bambine in miniatura erano coccolate da altre bambine, vestite, curate, nutrite, fatte parlare… Si specializzava così una gestualità precisa che da adulte avrebbero manifestato poi con neonati in carne ed ossa: da piccole imitavano la mamma e la nonna con le proprie bamboline, da grandi avrebbero ricordato come si avvolge o si fascia un pannolino, come si tiene fra le braccia un bimbo senza recargli danno. Come si governa una casa o si dispongono mobili e si serve un tè erano azioni insegnate dalle case di bambole che soprattutto nelle case borghesi e aristocratiche dilettavano le fanciulle.

Le bambole di legno della cultura alpina ad esempio avevano questa funzione, erano semplicissime o riccamente lavorate ma passavano di mano in mano, da madre a figlia, e permettevano il ripetersi di gesti quotidiani che sarebbero durati una vita. Una collezione splendida di tutti questi manufatti è conservata a Besenello e custodita dall’artista Paolo De Carli che con la moglie Katia Pustilnicov e l’amica artista Rosanna Cavallini hanno contribuito alla salvaguardia di questi oggetti artigianali di rara bellezza.

Queste bambole erano ricercate e venivano anche acquistate a prezzi elevati nelle città europee, spiccavano come girelli nelle vetrine di negozi e poi venivano adagiate nelle camerette delle signorine della buona società: non è possibile non ricordare il fascino quasi ipnotico che la grande bambola vestita di rosa esercitava sulla piccola Cosette ogni qualvolta passava davanti alla vetrina, quanto la bambina desiderasse questo oggetto, quanto la sognasse e la volesse per se… e quanto guardasse con desiderio la bomboletta di pezza di Eponime e di Azelma.

«La bambola è uno dei più imperiosi bisogni e nello stesso tempo uno dei più incantevoli istinti dell'infanzia femminile. Aver cura, vestire, ornare, abbigliare, spogliare, tornare ad abbigliare, insegnare, un po' brontolare, cullare, carezzare, addormentare, figurarsi che qualche cosa sia qualcuno; tutto l'avvenire della donna è là. Sempre sognando e sempre mormorando, facendo sempre dei piccoli corredi e delle piccole fasce, sempre cucendo sottanine, corpettini e giubbettini, la bambina diventa giovinetta, la giovinetta diventa giovane, la giovane diventa donna. Il primo figlio continua l'ultima bambola», queste le parole enfatiche di Victor Hugo, certamente uno degli scrittori più aderenti alla morale borghese ottocentesca. Anch’egli infatti sosteneva che una bambina senza bambola fosse disgraziata e assurda come una donna senza figli. Nei Miserabili infatti le figure femminili rispecchiano i ruoli che una società prevalentemente governata da uomini decide per loro. La moglie e la madre erano infatti il destino delle fanciulle di qualsiasi classe sociale e il gioco di ruolo infantile era lo specchio di questa impostazione culturale. Il futuro di ciascuno era scritto fino dall’infanzia e non era possibile trasgredire. Tutte le culture del mondo hanno nel gioco pedagogico o imitativo del mondo adulto la modalità principale per spiegare senza parlare cosa accadrà dopo: i riti di passaggio scandiscono il tempo che passa e introducono i fanciulli e le fanciulle in crescita ad altri giochi adatti alla loro età, al loro stadio mentale evolutivo e alla loro posizione sociale.

Nel 1968 Patty Pravo cantava forse con un certo intento di denuncia “La bambola” dove la donna veniva associa a questo oggetto così comune e nel contempo così inquietante, Ibsen quasi cento anni prima con la sua Nora in Casa di Bambola aveva iniziato a denunciare una certa moralità borghese che portava alla stereotipia e alla nevrosi. Nonostante questo l’associazione tra donna e bambola non è evaporata anzi si è estremizzata ancora di più nella nostra società occidentale; una certa impostazione culturale degli anni Ottanta e Novanta ha ricominciato a presentare un modello femminile legato a questo dualismo: donna-bambola-oggetto da usare e dimenticare, proprio come le bambole giocattolo.

Vorrei concludere la mia riflessione con le parole di una giovane scrittrice italiana Costanza Casati, autrice di The President Show, il suo primo lavoro in lingua inglese in uscita in tutto il mondo proprio in occasione dell’8 marzo3. «La mia storia può essere definita come una distopia in cui le giovani donne vengono selezionate per intrattenere i politici in un reality show televisivo. Le ragazze fanno dei provini per accedere a questo reality oppure vengono rapite dai quartieri poverissimi delle città in questa nazione dove comandano leader maschilisti a cui interessa ribadire che il ruolo della donna sia da un lato quello di oggetto di intrattenimento e dall’altro quello di caring (prendersi cura)», proprio come le bambine che si prendono cura delle loro preziosissime bambole. In questo romanzo distopico, la donna viene quindi indirizzata a ruoli precisi e non ha più la libertà di scegliere chi possa o voglia essere. La venticinquenne Costanza Casati è inquietata dalle tendenze misogine della società e al ruolo a cui le donne sono destinate e ha tentato di introdurre il lettore in uno scenario estremo al fine di poterlo portare a riflettere sulle situazioni che ci circondano, così talmente normali da essere completamente invisibili agli occhi.

Se un bambino ci chiedesse una bambola per giocare, come risponderemmo? Non saremmo tentati di indirizzarlo a macchinine e camioncini, trattori e attrezzi da lavoro? Se una bambina storcesse il naso di fronte al colore rosa, non sentiremmo un brivido di inquietudine e non ci chiederemmo il perchè? Che cosa non va? Forse in questo 8 marzo, come ogni giorno del resto, potremmo fare un nuovo esercizio e rispondere in modo contrario… Forse quando ci accingiamo a comperare un giocattolo ad un bambino e ad una bambina potremmo pensare quanto sia carica di mentalità imposta la nostra scelta apparentemente suggellata da libero arbitrio e riflettere sul significato simbolico di quell’idolo sbiadito di cui già nel 1847 Charlotte Brontë denunciava gli effetti…

Marta Villa, antropologa culturale
Università degli Studi di Trento


Bambole collezione De Carli - Cavallini (foto tratte dal libro "Il legno in gioco".  Curcu & Genovese, 2011 )

 

Laussel, sequenza di sculture paleolitiche ora al Museo di Bordeaux (foto M. Villa)

 

 
Costanza Casati, autrice del romanzo The President Show (foto C. Casati)
 
 
Copertina del libro "The President Show" in uscita in tutto il mondo l'8 marzo (foto C. Casati)
 
 

 

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