Corrado Pontalti, il partigiano Prua: il coraggio di un disertore che fece la scelta giusta
L'utilità nella festa della Liberazione di riascoltare la voce di un testimone della guerra e della Resistenza, mentre l'orrore delle bombe e delle violenze belliche sconvolge di nuovo l'Europa, dopo l'invasione russa in Ucraina. Nel 1944 fu arruolato dal Corpo di sicurezza trentino, ma ben presto passò dall'altra parte rischiando una condanna morte del tribunale tedesco
MARTIRI Le giovani partigiane Ora e Veglia, uccise nel Tesino
TRENTO. La Festa della Liberazione come momento di memoria e anche di monito, mentre la tragedia della guerra torna a colpire l'Europa, con l'invasione russa dell'Ucraina. Un altro fiume di sangue, trent'anni dopo l'inizio della guerra in Bosnia, un'altra ferita profonda e mai guarita.
Negli anni scorsi chi scrive ha scelto di intervistare molti testimoni diretti della guerra di liberazione in Italia, soprattutto uomini e donne della Resistenza.
In diversi casi quelle voci sottolineavano che la speranza, talvolta la convinzione, era che quella fosse l'ultima volta, per sempre. Che poi si sarebbe costruito un mondo diverso, senza guerre, sopraffazioni, violenzse. Un mondo più giusto.
Poco meno di sei anni fa, nel maggio 2016, ci lasciò all’età di 93 anni, Corrado Pontalti, il partigiano «Prua», testimone della Resistenza, che in Trentino faticò sempre a prendere piede ma che visse alcune pagine memorabili, come quella attraversata da questo uomo, grazie all'unione di alcuni giovani del Tesino con le attrezzate formazioni garibaldine del Bellunese.
Nato a Povo nel 1923, all'inizio del 1944, a 21 anni, Pontalti vive la pagina nera del reclutamento di giovani locali cui le autorità occupanti prospettarono l'impiego come gendarmi in provincia nell Corpo di sicurezza trentino (Cst).
Nell'estate 1944, fuggito subito dopo l'8 settembre '43 da Genova dove faceva il marinaio di leva, era uno degli oltre tremila giovani trentini arruolati in un corpo di polizia della Zona di operazioni delle Prealpi (Alpenvorland), entità amministrativa istituita da Hitler a Bolzano, Trento e Belluno, per porre sotto il controllo della Germania (attraverso i nazisti tirolesi) le tre province dolomitiche.
Nel frattempo a Bolzano si istituisce il Servizio di sicurezza e ordine (Sod), accanto ai reggimenti di polizia sudtirolesi e ai giovani autoctoni in divisa Ss, Wehrmacht o Flak (artiglieria contraerea).
«Un giorno fui convocato all'ufficio comunale di Povo, eravamo cinque ragazzi del paese, fra i quali Ivo Slomp, che come me più tardi passerà con i partigiani ma che purtroppo a Trento non è mai stato ricordato. L'impiegato ci spiegò che il Cst ci avrebbe evitato di finire al fronte. Accettai, ma già al primo giorno del corso di formazione mi resi conto dell'inganno: ci spiegavano solo tattica di guerra», racconta Pontalti.
Dopo il corso che cosa avvenne?
«Nell'aprile 1944 venni assegnato alla seconda compagnia del Cst. Già in maggio, fummo impiegati insieme a Flak e marina in due rastrellamenti contro i partigiani nella zona di Lavarone (in un'occasione i tedeschi portarono via un giovane di Asiago). Poi, il nostro comando fu trasferito a Borgo Valsugana e il mio plotone fu inviato a Moena. Qui fra l'altro mi avvicinò con cautela un ragazzo parlandomi dell'attività partigiana, lui veniva dall'Agordino, dove erano attive brigate garibaldine. In agosto, fummo spostati a Castello Tesino, dove ci informarono dell'attività del battaglione Gherlenda, che era sorto poco tempo prima appoggiandosi ai partigiani della brigata Gramsci, presente nelle vicine Vette Feltrine. Un gruppo di combattenti bellunesi, sotto la guida di Isidoro Giacomin Fumo da Fonzaso, si era unito a qualche decina di giovani trentini che avevano proposto di estendere l'insediamento a ovest, in Tesino».
Quindi lei era già altrove quando dalla val di Fiemme partirono anche compagnie del Cst per affiancare le truppe tedesche in valle del Biois, in occasione della strage e degli incendi dei paesi del 20 e 21 agosto 1944?
«Certo, ero in Tesino dall'inizio d'agosto. In caserma eravamo una cinquantina, con quattro sottufficiali trentini e il comandante tedesco. Iniziai anche a fare conoscenza con un paio di ragazze del luogo. Mi parlavano anche dei partigiani. E piano piano maturò il mio piano di fuga. Più tardi ritrovai una di loro in montagna: era Veglia (Clorinda Menguzzato, che insieme a Ancilla Marighetto Ora fu tra i giovani martiri del Gherlenda, ndr)».
Quando prese la decisione?
«A convincermi definitivamente fu un episodio. Un giorno eravamo nella piazzetta davanti alla caserma, insieme a un gruppo di soldati tedeschi di passaggio. Noi del Cst stavamo conversando, quando si udì uno sparo. Mi girai e capii che avevano colpito un signore che camminava con la falce in spalla accanto a un bambino sul prato di fronte. Era stato intimato l'alt ma l'uomo, del tutto inerme, non aveva sentito e fu ucciso da un tedesco come se niente fosse. Quel giorno mi dissi che non potevo più stare con quella gente».
Come fece ad andarsene?
«Rientravo da una licenza di 24 ore quando la mia corriera fu fermata dai partigiani, fra i quali c'erano Celestino Marighetto Renata, il fratello di Ora, e il temerario Lupo, Gildo Gris, un giovane bellunese di Cesiomaggiore, che avevo conosciuto per caso quando ero in marina a Genova. Orchestrammo un finto arresto e andai con loro su a Costabrunella dove avevano il rifugio. Qui fra l'altro, durante il colloquio, fui messo a confronto con due partigiani che mi conoscevano: erano due miei ex commilitoni del Cst improvvisamente spariti a Castel Tesino, nomi di battaglia Kira e Aitanga, dei quali poi non sono mai riuscito a ricostruire l'identità. Io da quel momento ero il partigiano Prua».
Pochi giorni dopo fu assaltata la caserma del Cst.
«Io naturalmente non partecipai, rimasi su in montagna con la mucca. Fu un'azione straordinaria, senza spargimento di sangue; furono recuperate armi e cinquanta miliziani del Cst, vennero presi, caricati su un pullman e portati al passo del Brocon. Qui fu offerto loro di entrare nella Resistenza ma nessuno accettò. Si decise allora di lasciarli andare, intimando loro di non ripresentarsi in caserma, cosa che invece fecero tutti regolarmente. L'unico trattenuto e portato a Costabrunella fu il comandante tedesco; i miei compagni mi chiesero che tipo fosse, risposi che sembrava un buon padre di famiglia e lo lasciarono andare».
Secondo lei perché nessun ragazzo colse quell'occasione per disertare?
«Di certo temevano ritorsioni sulle famiglie. Quanto a noi, già all'indomani ci fu un grande rastrellamento cui partecipò anche il Cst. Ascoltando le voci avevo localizzato tedeschi e trentini che salivano il pendio e non sparai mai verso i miei ex commilitoni. Nel combattimento noi perdemmo il comandante Fumo, i nazisti ebbero diversi caduti».
Con voi c'erano anche le due ragazze?
«Solo Veglia, che stava insieme al suo fidanzato Nazzari (il feltrino Gastone Velo col quale sarà catturata l'8 ottobre 1944 da una pattuglia del Cst e due giorni dopo entrambi verranno uccisi a Castello Tesino, Clorinda prima di essere fucilata fu ripetutamente violentata e seviziata, ndr)».
Come passò le settimane seguenti?
«Il mio gruppo era in val Cadino; partecipai a varie azioni, come quella di Palù del Fersina, dove recuperammo armi e munizioni in un deposito presso una sorta di casermetta nazista».
Ma lei come spiega il mancato sabotaggio del reclutamento nel Cst? Nel Bellunese un'analoga iniziativa fallì completamente, perché la diffusa organizzazione della resistenza consentì di avvicinare i giovani al movimento: venivano distrutti gli archivi anagrafici e le cartoline leva, gli occupanti restavano spesso disorientati. Non si poteva fare lo stesso qui in Trentino?
«Qui si optò per la strategia del quieto vivere con i tedeschi, si assecondava l'autorità per limitare gli effetti negativi dell'occupazione. Lo stesso prefetto Adolfo de Bertolini si spese in questo senso, con l'obiettivo di lenire le sofferenze della popolazione e io lo rispetto per questo intento. I belumati invece rifiutarono quasi tutti al reclutamento. D'altra parte va tenuto presente che all'epoca, in Trentino il retaggio asburgico aveva lasciato anche qualche simpatia sociale per il mondo tedesco. La resistenza trentina, invece, come noto, era stata precocemente decapitata».
Oggi c'è chi sostiene che i partigiani provocavano solo rappresaglie o addirittura che rubavano il formaggio ai contadini.
«Per quanto riguarda le requisizioni alimentari, noi lasciavamo il buono di rimborso. Sono stati commessi errori, ma dovuti ai limiti della preparazione di quei giovani, non certo a cattive intenzioni. Capisco che ogni persona vive la sua memoria e i suoi lutti, ma dei partigiani non è giusto ricordare solo gli errori. Purtroppo qui da noi nel dopoguerra non si è fatto un lavoro serio sulla memoria, anzi..».
Torniamo al 1944: in novembre il «Gherlenda» era ormai ridotto all'osso, siamo allo «sbandamento»: lei che fece?
«Tornai a casa e mi nascosi. Poi, per sicurezza, mi rifugiai ad Arsiero, nel Vicentino, vicino al confine trentino. Qui disgraziatamente ci fu una rapina al tabacchino e accusarono me solo perché indossavo un maglione simile a quello del vero malvivente. La sera stessa due gendarmi mi arrestarono e nell'interrogatorio saltò fuori la mia identità. I repubblichini volevano trattenermi, ma i tedeschi pretesero di prendermi in consegna, perché ero un soldato del reich. E soprattutto un disertore. Mi portarono a Roncegno e mi interrogavano ancora. Io negavo tutto. Purtroppo, però, quel comandante del Cst da noi lasciato andare libero a Costabrunella, al rientro aveva sùbito avvisato i suoi superiori di avermi visto: dunque sapevano tutto da tempo. A fine febbraio, a Trento, finii davanti alla corte marziale e rischiavo la pena di morte. Fortunatamente, l'avvocato d'ufficio pretese l'escussione del testimone chiave, che però tardava ad arrivare e alla fine me la cavai solo perché gli eventi precipitarono verso la Liberazione.
Passai poi alla polizia partigiana, inizialmente sotto il comando di Radiosa Aurora (Mario Bernardo, che lascerà presto l'incarico per le ostilità incontrate nel perseguire i collaborazionisti, ndr»).
Come fu per lei il rientro alla vita civile?
«Fu spiacevole scoprire che in giro c'erano maldicenze su noi partigiani disertori del Cst, c'era chi ci considerava dei voltagabbana. Non ci si rendeva conto che era stato un rischio enorme tradire i nazisti per combattere contro l'occupazione e i suoi orrori anziché contro la nostra stessa gente. Meritavamo almeno un po' di rispetto».
Le autorità locali non ritennero di attribuirvi un plauso?
«Nessun tipo di riconoscimento, a parte quelli nazionali. Io rimasi due anni disoccupato, avevo perso il posto che prima della guerra avevo in Comune a Bolzano, alla fine per fortuna trovai lavoro in Regione. Oggi, invece, sto ricevendo grandi soddifazioni, come la festa organizzata per il mio compleanno il 4 febbraio (2012, ndr): c'era davvero un sacco di gente».
Nel dopoguerra Pontalti lavorò nella segreteria della presidenza regionale e diventò una figura molto nota anche per i ruoli ricoperti nell’ambito sportivo, come dirigente del ciclismo. Nel 1948 fu tra i fondatori dell’Us Aurora Trento e nel 1954, con amici di Bassano, del trofeo Alcide Degasperi. Tra i vari incarichi rivestiti, quello di vicepresidente del Coni provinciale e di membro della giunta nazionale della Federazione ciclistica italiana.