Angela Prati, la trentina fotoreporter "mondiale": una vita in viaggio a documentare l’umanità
Vive a Povo, nel suo “bunker”: è così che chiama lo studio dove produce e dove custodisce il suo favoloso archivio. Migliaia e migliaia di foto, in parte diapositive, in parte file in numerosi hard disk. E ci spiega i segreti del suo «sguardo» mai banale
STORIE Le interviste dei trentini all'estero
TRENTO. “Mio padre era di Piacenza, sono nata là. Ma vivo a Trento da quando avevo nove anni. Ho lavorato per quarant’anni come fotoreporter freelance, in tutto il mondo. Ho pubblicato sulle più prestigiose riviste italiane, da quelle di viaggi ai magazine femminili. Eppure a Trento nessuno mi conosce. E a Povo, dove vivo, rimarrò sempre la moglie del dottor Pagano”.
Incontro Angela Prati nel suo “bunker”: è così che chiama lo studio dove produce e dove custodisce il suo favoloso archivio. Migliaia e migliaia di foto, in parte diapositive, in parte file in numerosi hard disk. Fotografie fantastiche scattate in 40 anni in tutto il mondo, dalle steppe del Tibet alla savana africana, dall’Antartide alla Siberia, dall’India all’Estremo Oriente…
LE PIU' BELLE FOTO DI PRATI
Il bunker è il suo mondo: computer, macchine fotografiche, taccuini, souvenir di viaggi, un grande divano indiano, un grande mappamondo, una cyclette e un tapis roulant. “Qui mi rifugio tutti i giorni, è il luogo che mi appartiene, è veramente il mio mondo”.
Angela, quando ha incontrato la fotografia?
Mi sembra di poter dire, fin da bambina. A nove anni ero appassionata di pittura, giravo ovunque con il cavalletto, la tela e la tavolozza. Il passaggio alla fotografia è stato una continuazione…
In che modo?
Mio padre era severissimo, era un funzionario di banca. Mi ha obbligata a studiare Ragioneria, e il mio destino sembrava segnato. Dopo il diploma, iniziai il Dams, ma feci solo due esami. Mio padre mi disse che dovevo rendermi indipendente, non mi avrebbe più aiutata. Così iniziai a lavorare come contabile in vari uffici. Ma nel tempo libero - erano i tempi di Sociologia - iniziai a frequentare
una specie di circolo, si chiamava Ama e stava all’angolo di corso Tre Novembre e via Perini, dove c’era il bar Alessandra. Era uno spazio libero, per pagarlo facevamo servizi fotografici a pagamento. Il resto del tempo si stampava, si sperimentava… avevo vent’anni.
Ma poi ci fu l’incontro che cambiò la sua vita.
A quei tempi non c’erano scuole di fotografia, mi iscrissi ad un corso a Venezia, con il grande Fulvio Roiter. Mi teneva d’occhio, e mi chiese di iniziare a collaborare con lui. Prima come assistente, poi cominciò a dare il mio nome alle riviste ed alle agenzie che lo cercavano per servizi e reportage. E così ho iniziato a frequentare le redazioni di Milano. Roiter mi ha insegnato tutto, e mi ha introdotto nel mondo del professionismo.
Che riviste erano?
Erano gli anni d’oro delle riviste: iniziai con Weekend, poi Geodes, La nuova cucina, Dove. Ma anche Airone. Forse ho lavorato per qualche centinaia di testate, molte purtroppo non esistono più. Da Milano mi commissionavano i reportage di viaggio all’estero. Guadagnavo, anche tanto, perché era un momento in cui si stava benissimo, e il committente ti pagava i viaggi, gli hotel, la pellicola e la parcella… si trattava però di viaggiare molto, molto intensamente. Ma io sono un po’ una zingara, mi è sempre piaciuto viaggiare, ed andare per conoscere.
Questa è diventata la sua cifra stilistica.
Sì, viaggiare liberi, ma per andare a sorridere, toccare le mani della gente, anche se a parole non ci si capiva. E a godere il fatto di stare lì, lontano. Ho amato anche i viaggi in aereo, quando potevo guardare per ore il mondo più in basso.
Lei ha girato, fotografando, tutti i continenti…
Sì, dall’Africa all’Asia, l’Artide e i deserti, in luoghi remoti e inaccessibili.
In luoghi pericolosi, vuol dire. Mai avuto paura?
Avevo soprattutto paura per le mie macchine fotografiche, sempre tre, con il cavalletto. Fulvio Roiter girava sempre con il cavalletto, e questa tecnica me l’ha trasmessa. Mi chiamano ancora “la donna del cavalletto”. Avevo paura per l’attrezzatura, anche se… ammetto: donna, bionda, appariscente, non era facile. Però non ho mai avuto problemi. Ma timori sì, quando i pericoli li avvertivo. In realtà, le uniche volte che ho rischiato la pelle sono stati in viaggio. Una volta, in
Norvegia, l’elicottero dal quale stavo facendo un reportage per Costa Crociere ha rischiato di precipitare toccando i cavi dell’alta tensione… Oppure una volta in mare, in Messico, su una barchetta al largo, da sola con due marinai… ma me la cavai.
Una domanda che vorrei farle, anche se forse ad un suo collega maschio non avrei pensato di fare: lei era sempre in giro per il mondo, ma a casa aveva un bambino e un marito. Pensa di aver sacrificato qualcosa, per la sua carriera?
Ero così entusiasta del mio lavoro, che quando tornavo a casa raccontavo loro tutte le mie avventure, li coinvolgevo. Ho sacrificato poco, perché questo lavoro mi ha dato tanta vita, gioia e voglia di vivere; per esso ho dato tutto quello che avevo, ma il meglio l’ho sempre tenuto per la mia famiglia. Non so cosa avrei fatto senza questo lavoro. Un’altra vita? Non la vedo così bella.
Parliamo di tecnica. E di macchine fotografiche.
In realtà avevo iniziato con la fotografia pubblicitaria, still life in studio, avevo un laboratorio alla Prima Androna. Bellissimo lavoro, ma mi ritrovavo sempre china sulle opere alle due di notte. E mi sono detta: non si può lavorare così. Nei reportage ho iniziato con una Leica, macchina stupenda. Poi, dolorosamente, con l’arrivo del digitale sono passata alle Nikon. Devo dire che ho lasciato l’analogico a malincuore.
Pellicola? Colore?
Ho fotografato anche in bianco e nero, ma il mio lavoro di fotoreporter era sempre su diapositive a colori. Le riviste volevano il positivo, ovviamente. Ma alla fine, la macchina è il mezzo, poi sei tu che fai la differenza.
Quante fotografie ha scattato in vita sua?
Non lo so, è impossibile dire un numero. Una volta ho provato a contarle, aiutata da mio nipote… ho forse qualche milione di scatti, molti dei primi tempi in diapositiva, ed ogni diapositiva ha la sua didascalia accurata. Ma poi ne ho altrettante in digitale, negli hard disk…
Non si definisce mai fotografa, ma fotoreporter. Perché?
Perché il lavoro di fotoreporter è uno dei mestieri più belli del mondo. E quando l’ho fatto, i tempi erano diversi. Allora c’era sempre un sguardo sotto ogni immagine, e dovevi cercarti le immagini e le cose che non c’erano nei libri e nelle guide turistiche. Io non sono capace di fare foto da turista, penso sempre come reporter, anche adesso.
Parla del suo lavoro come un passato che non c’è più…
Mi spiace che questa professione stia scomparendo, e svilendo, fra cellulari e selfie. Per ogni vero fotografo, la tua foto è la tua creatura, è tua, è una cosa soggettiva perché c’è un cordone ombelicale che lega la fotografia a chi la scatta, un legame inscindibile. Ma parlo di fotografia, non di immagini: adesso non c’è più il senso, non c’è un racconto, ma solo una quantità enorme di foto banali. Si fotografa tutto, a raffica, persino il cibo che si mangia. E’ tutto esageratamente tutto addosso.
Lei si è fatta strada in un mondo di maschi.
Sì, ero praticamente l’unica donna a fare il reporter. Ma mi dicevano sempre: si vede che queste foto sono scattate da una donna. Era una cosa che piaceva molto alle redazioni.
Come mai?
Gli uomini facevano soprattutto paesaggi, natura. Io invece riuscivo ad entrare fra la gente, ed il contatto umano per me è stato sempre fondamentale. Non riuscirei mai a fotografare senza aver prima stabilito un contatto, un sorriso, uno sguardo, una stretta di mano. Oggi i turisti sbarcano anche nei villaggi africani, scendono da pullman e tirano fuori i cannoni, e si mettono a fotografare qualunque cosa, a raffica. Ecco perché il mio viaggiare era diverso: non ho mai rubato una foto. I
miei soggetti dovevano essere contenti di essere fotografati, sempre. E da donna, sono sempre riuscita ad avvicinarmi alle donne, ai loro volti e alle loro vite. In tutto il mondo.
Il suo archivio è uno scrigno di preziosi tesori. Che cosa ne farà?
Vorrei che fosse chiaro che, finché ci sono, il mio archivio rimane qui nel mio bunker. Ma ora chi gli anni passano, da un po’ di tempo ho dentro questa angoscia: dove andrà a finire tutto questo? Ecco, vorrei solo che qualcuno possa godere di tutto questo materiale quando non ci sarò più.
Un museo? Un ente pubblico?
Un mio collega veneto ha trovato un Club che ne cura l’archivio, ed anche le mie ultime opere, in digitale, sono state acquisite dal Fondo Alinari, gestito dalla Regione Toscana. Ma a Trento…
A Trento?
A Trento mi sono resa conto che non mi conosce nessuno, e nessuno conosce il mio lavoro ed il mio archivio, che è già a posto, con tutte le didascalie e la catalogazione. Peccato.
Un piccolo appello: chi può, si faccia avanti. Perché “la moglie del dottore” diventi quello che è: una grande artista ed interprete del mondo, trentina, che tutti meriterebbero di conoscere ed apprezzare.