Mondo / Intervista

Francesca Mannocchi: «Per raccontare la guerra bisogna immedesimarsi»

Parla la nota giornalista e inviata in zone di conflitto, che domenica 30 giugno sarà protagonista nell'ambito della sesta edizione del festival Trentino2060, a Borgo Valsugana. «Mi piace definirmi una cronista di pace e ai giovani dico: studiate la storia»

ONU "Il numero di persone in fuga è raddoppiato in 10 anni"
FOTO A Trento il corteo a due anni da invasione Ucraina

di Alice Presa Wood

TRENTO. L'articolo 11 della Costituzione recita che l'Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, e come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli. Si stima che in media ogni anno ci siano 100 scontri armati nel mondo, in Siria, in Yemen, in Afghanistan, in Myanmar, in Somalia, in Ucraina, e così via. Comprenderne le cause è difficile, e ancor più complicato è cercare una soluzione che rispetti le esigenze di tutti.

Cosa vuol dire fare la guerra è il titolo della conferenza che terrà Francesca Mannocchi domenica 30 giugno alle 17 nella sesta edizione di Trentino2060 a Borgo Valsugana.

Mannocchi si occupa di migrazioni e conflitti per numerose testate italiane e internazionali. Ha ricevuto il Premiolino per il giornalismo nel 2016, e ha vinto il Premio Giustolisi con l'inchiesta Missione impossibile (LA7) sul traffico di migranti e sulle carceri libiche.

Francesca Mannocchi, che rapporti ha con il Trentino?

«Ho un ricordo molto importante qui. Nel 2016 ho avuto la possibilità di seguire dal Libano a Trento il primo corridoio umanitario che ha portato in Italia i profughi siriani. Infatti per me Trento è una città inclusiva che ha saputo accogliere a braccia aperte una famiglia molto numerosa che scappava dalla guerra in Siria».

In cosa consiste il lavoro di un o una cronista di guerra?

«Diciamo che invece di definirmi una cronista di guerra, preferirei definirmi una cronista di pace. A volte si pensa che chi sceglie di raccontare i conflitti abbia una strana fascinazione per le armi, invece il nostro lavoro è narrare di chi la guerra non la vuole: dei sopravvissuti, dei parenti delle vittime, delle vittime civili, ma anche di coloro che sono costretti a combattere una guerra a cui non credono, come i soldati al fronte, di cui molto spesso ci dimentichiamo e che sono i primi a volere la pace».

Qual è la qualità principale che dovrebbe avere un cronista di guerra, o meglio, di pace?

«Lo stesso che devono avere tutti i cronisti. Una straordinaria curiosità e la capacità di cambiare idea, cioè il non spaventarsi quando incontriamo delle persone che si muovono in modo diverso da come avevamo immaginato».

Che consiglio darebbe ai giovani che volessero intraprendere questa professione?

«Di studiare la storia prima di tutto. Prima di scrivere le storie, devi studiare la storia».

Come inviata nei Paesi in guerra ha mai avuto paura?

«La paura è e deve restare sempre la nostra migliore alleata, perché è la paura che non ci fa fare sciocchezze. La consapevolezza della guerra è arrivata negli ultimi anni quando le guerre hanno cominciato ad aumentare e ci si è resi conto che l'odio e il risentimento hanno una matrice comune. La storia del mondo contemporaneo ci ha dato delle lezioni che abbiamo faticato ad imparare e quello che mi fa più paura del rischio in sé, è l'idea che continuiamo a raccontare di queste guerre che dovrebbero darci degli insegnamenti, ma sembra che questi insegnamenti non vengano recepiti».

Verranno mai recepite secondo lei? Per esempio dalle nuove generazioni?

«Allo stato attuale con le due più importanti guerre tra le tante che stiamo vivendo in questo momento, mi sento un po' pessimista. Perché questi due confitti hanno radici che affondano in rancori e rivendicazioni molto antiche. Si sarebbe potuto fare molto, si è scelto di non fare abbastanza. Spero che le nuove generazioni che si informano in un'altra maniera, che hanno delle sensibilità diverse, che sono nate in una società che è molto diversa da quella in cui siamo cresciuti noi, ossia multiculturale e multi religiosa, sappiano dare risposte differenti da quelle che abbiamo dato noi fino ad ora».

Com'è cambiato il reportage in questi anni?

«Non credo sia cambiato molto il reportage in sé, credo sia cambiata piuttosto la percezione dell'opinione pubblica e un certo modo di fare informazione. Questo devo dire che è cambiato per via della guerra in Ucraina dato l'impatto che ha avuto su tutti noi: giornali, palinsesti radiofonici e televisivi sono stati invasi dal racconto e dall'analisi di questo conflitto, a volte fatto anche da persone non proprio preparate. E questo, secondo me, ha danneggiato e influenzato negativamente la costruzione di un'opinione pubblica davvero informata».

Per via dell'impatto mediatico però le persone potrebbero essere più coinvolte?

«Vero, ma bisogna vedere perché sono coinvolte. Se sono coinvolte perché hanno un sincero bisogno di capire cosa accade agli altri è un conto, se invece sono interessate perché hanno bisogno di capire quanto aumenterà la bolletta del gas allora diciamo che è un'altra categoria di sensibilità. Io credo che ognuno di noi debba interrogarsi davvero su quello che è il sincero motore dell'interesse delle notizie».

Come si può aiutare l'opinione pubblica a capire il significato di una guerra?

«Ogni volta che siamo di fronte al racconto di un conflitto, dovremmo avere la razionalità e l'emotività di chiederci cosa farei io se fossi al posto di questa persona, che sia essa vittima o carnefice. Bisogna sapersi immedesimare».

È vero che ci sono guerre che l'occidente definisce di “serie A o B”?

«Diciamo che la guerra in Ucraina ha avuto più peso proprio perché è alle porte di casa, è una guerra che, purtroppo, ha vittime che ci somigliano e quindi il racconto è diventato più empatico. Cosa abbastanza frustante per chi come me cerca di raccontare conflitti in giro per il mondo, in luoghi anche remoti del pianeta.

Pensa che si troverà mai una soluzione per la guerra Isreale-Palestina?

«Questa è una domanda da un milione di dollari. Non credo che nessuno di noi purtroppo possa dare una risposta né mi sento di essere oracolo. Credo che questa guerra racconti la debolezza della diplomazia in questo momento. Segna il tramonto della speranza di una possibilità di un accordo di pace che ha accompagnato in maniera sempre più timida di questo conflitto. Credo che oggi sia molto difficile sia per gli israeliani che per i palestinesi pensare in una convivenza veramente pacifica».

E lo stesso accade per la guerra in Ucraina?

«Le conferenze sulla possibilità di un accordo di pace di questi giorni sono conferenze che si svolgono con due grandi assenze: la Russia e la Cina. È un po' complicato pensare che si possa fare un ragionamento sulla pace quando manca uno dei due interlocutori, cioè l'invasore. Anche qui mi viene da dire che questa situazione porta lo stesso titolo, cioè una radicale debolezza della diplomazia».

Come europei che ruolo abbiamo noi in questi conflitti?

«Credo che i paesi europei abbiano preso delle decisioni molto coraggiose e doverose nei confronti della Russia, e che i governi e l'alta diplomazia, ed è un dato appurato, hanno cercato fino all'ultimo di mediare con Putin per evitare questa guerra. Quindi non credo che l'Europa abbia molto da rimproverarsi se non forse una certa distrazione negli anni che hanno preceduto la guerra, perché Putin mostra oggi una faccia già ampiamente mostrata in passato. L'unica cosa che penso è che però oggi giorno l'Europa debba fare i conti con un mondo che è diventato sempre più multipolare, non abbiamo più la centralità che avevamo 50 anni fa».

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