La lettera sui Lager andava cestinata
Caro direttore,
mi chiedo se lei faccia bene a seguire la regola che si è dato di pubblicare tutte le lettere che riceve. Secondo me no. Mi riferisco alla lettera del Signor Delladio di sabato 12 settembre. Come si fa infatti a pubblicare la lettera di un signore per il quale (testuale) «la parola lager resterà sempre la traduzione tedesca di magazzino»?
Per me, come credo per la stragrande maggioranza degli italiani, lei lo ha del resto scritto, quella parola ha assunto dopo la seconda guerra mondiale, un significato diverso, unico e tragico. Per me quella parola designa i campi di sterminio di ebrei omosessuali rom e varie altre persone considerate alla stregua di rifiuti del genere umano. E designa anche i campi di concentramento per i militari IMI nella seconda guerra mondiale. Dire che significa altro da questo "nuovo" significato assunto ormai 80 anni fa, dire che significa "magazzino", configura quanto meno una provocatoria mancanza di rispetto. Quella lettera, mi perdoni, non doveva essere pubblicata.
Mio padre portato contro la sua volontà in "tour" gratis, ne girò parecchi di lager tra Polonia e Germania dal '43 al '45 del secolo scorso, e ne rimase così segnato nel fisico e nell'anima da non volerne mai più parlare nella sua vita successiva. Ma le chiedo ospitalità anche per contrastare un qualcos'altro che traspare e che forse sarebbe stato un altro buon motivo per non pubblicarla quella lettera.
Mi riferisco alla Calabria, citata grossolanamente e offensivamente. Vorrei ricordare a chi l'ha dimenticato che nel '700 ma anche per alcuni decenni dell'800, Napoli, la capitale del Regno delle Due Sicilie (e quindi anche della Calabria), fu una città con una vita culturale a livello delle maggiori capitali europee, se non addirittura superiore in alcune sue "punte" delle arti figurative, della musica del teatro della storia e della filosofia. Ma così accadeva, in piccolo, nelle varie regioni di quel regno.
Anche in Calabria e nella mia Puglia. Naturalmente mi riferisco alle élites (di censo, di nobiltà, di clero, d'armi), e non al cosiddetto popolo, le cui condizioni di vita, sia rispetto ai ceti che detenevano il potere economico in quelle regioni che rispetto all'Italia tutta, si sono da allora divaricate, creando un dislivello mai più davvero colmato nei decenni successivi. Inutile ripercorrerne qui le motivazioni sociopolitiche. Eppure anche in questo gap tra classi nella società dell'Italia meridionale , sono apparsi, sia detto a titolo di esempio, frutti generosi se pure acerbi come l'illusoria Repubblica Napoletana subito dopo la Rivoluzione Francese, o frutti tardivi e dolcissimi come la canzone napoletana ed il café chantant. E tra le altre cose, non dimentico quel tratto di ferrovia a doppio binario nel Napoletano, il primo in Italia ed uno dei primi in Europa (nel 1839!).
Per non parlare delle lotte sindacali dei contadini e dei braccianti nei decenni del primo 900, alfiere Giuseppe Di Vittorio da Cerignola (FG).
Bagliori che non fanno altro che mettere in risalto il buio del panorama. Con questo breve excursus intendo dire che non bisognerebbe mai generalizzare , e avere sempre presente il quadro storico e la sua evoluzione nel nostro paese. Che resta un meraviglioso e particolarissimo mosaico di culture e tradizioni diverse, a cui non si dovrebbe fare il torto di considerarlo solo sotto l'aspetto economico.
Un grande paese di intricata complessità l'Italia. Ogni regione ha diritto a vedersi riconosciute le sue peculiarità, senza assurdi pregiudizi e prevaricazioni. Chiudo con un piccolo ricordo personale. Nel Subappennino Dauno in provincia di Foggia, in cui ho vissuto nella mia infanzia, ricordo bene, nelle scuole di certi piccoli poveri paesi, le raccolte di fondi e vestiario per i "fratelli del Polesine" colpiti dalle alluvioni del Po dei primi anni '50. Questa è l'Italia migliore. Questa dobbiamo ricordare, e proteggere.
Filomeno Mottola
L'Italia migliore non deve mai aver paura
Sottoscrivo ogni sua parola. Salvo l'invito alla censura.
Caro Mottola, l'Italia migliore non deve mai aver paura di chi la pensa diversamente, di chi si ostina a non vedere un dramma dentro una parola, di chi guarda il mondo con occhi diversi, magari influenzati da un credo - politico o culturale (stavo per scrivere questa seconda parola fra virgolette) - distantissimo dal nostro. Per questo non taglio e non censuro (se non nelle parti che contengono offese di basso livello o volgarità) lettere che d'istinto vorrei accartocciare.
Vale per chi ancora crede che il Covid-19 sia frutto di un chissà quale complotto, per chi crede che la terra sia piatta e anche per molti scritti di alcuni lettori (pochi, per fortuna) che amano la polemica per la polemica.
Una minoranza che però esiste. Che a volte preoccupa, ma che merita comunque una risposta: perché rappresenta un pezzo di Paese che già si sente tagliato fuori, che già vede ovunque dei nemici, dei disegni perversi. Trovo gravissimo anche solo pensare che il Lager non evochi un campo di sterminio e trovo preoccupante che ci sia ancora chi crede di poter sconfiggere il coronavirus chissà con quali metodi naturali (come se, fra l'altro, non ci fosse un business anche dietro i metodi naturali), ma ignorare le lettere di chi la pensa così significa - come purtroppo spesso fa anche un pezzo di politica che non sa più includere e dialogare con tutti - ignorare un pezzo, magari anche piccolissimo, del nostro Paese.
E un giornale non può ascoltare solo alcuni, benché rappresentino la stragrande maggioranza. Deve semmai saper rispondere. E sia chiaro: non è detto che io ci riesca, anche se ci provo tutti i giorni.
lettere@ladige.it