Covid, una sofferenza che non ha nulla di umano
La storia di un anziano malato di coronavirus, deceduto in ospedale senza che i familiari potessero vederlo o salutarlo, nella lettera di oggi. Con la risposta del Direttore Alberto Faustini.
Covid, una sofferenza che non ha nulla di umano
Gentile direttore, Le scrivo per raccontarle la mia storia con il Coronavirus e, spero, dare un senso a quel dolore che ha colpito così duramente la mia famiglia.
Circa un mese fa mio padre, 92enne, è stato ricoverato in ospedale per le complicazioni da Covid, per poi essere spostato in una struttura a lunga degenza. Ed è qui che per noi è iniziato il dramma dell’attesa. In ospedale ricevevamo notizie regolari, mentre a seguito dello spostamento solo dopo 6 giorni sono riuscita ad ottenere aggiornamenti sul suo arrivo e sullo stato di salute, con la notizia che il suo quadro clinico era peggiorato. Nel mentre nessuna telefonata per sentire la sua voce, nessuna videochiamata, il nulla totale nonostante le nostre insistenze. Dopo 3 settimane avvolte nel silenzio il cuore di mio padre non ha più retto a tanta sofferenza. Intuendo la fine ed insistendo con forza sono riuscita ad ottenere la prima videochiamata, ma purtroppo, non era già più cosciente. Due giorni dopo mi hanno informato della sua dipartita.
Direttore, mi domando, perché tanta sofferenza? Perché impedire qualsiasi tipo di contatto anche nel momento del trapasso? A inizio dicembre ho salutato mio padre dall’ambulanza dicendogli che tutto sarebbe andato bene, e quelle sono le ultime immagini e parole che ho di lui, per poi ritrovare solamente una bara di legno. In questo anno intero non era possibile pensare ad una soluzione per non lasciare soli i nostri cari nel momento del trapasso? È questo l’unico modo di morire che la nostra società contempla oggi: soli, in silenzio e distanti dagli amati? Senza una carezza nemmeno nel momento della chiusura del feretro?
Capisco che tutta l’umanità stia lottando la sua battaglia con il Coronavirus e tutti siamo chiamati a grandi sacrifici, ma qualcosa si deve e si può ancora fare nel momento in cui la dipartita diventa concreta. È una questione morale e di dignità. Possiamo ad esempio immaginare sale apposite con divisori come nelle case di riposo, l’istituzioni di volontari che aiutino con il servizio di videochiamate, oppure l’introduzione di un numero fisso di contatti a cui i pazienti hanno diritto e che devono essere garantiti dalle nostre strutture. Sono solo idee, ma con l’auspicio che non si ripetano storie come questa. Oggi a me e alla mia famiglia rimane un vuoto che non sarà mai colmato. Oltre all’angoscia di non sapere come mio padre avrà vissuto quelle tragiche settimane e se abbia pensato di essere stato abbandonato dalla sua famiglia. A tutte queste domande non avremo mai risposta. La dura conferma di quanto sia spietato su più fronti il Coronavirus.
Adriana Campregher
Io, adesso, la vorrei abbracciare
Posso farle una confessione? C’è solo una cosa che vorrei fare ora: abbracciarla, dirle che la capisco, risponderle che questa sofferenza non ha nulla di umano. Il covid non ha ucciso solo molti (troppi) dei nostri cari, ha dilaniato il nostro modo di salutarli, ci ha portato via abbracci e carezze, ha congelato i gesti, rendendo ancor più devastanti le emozioni. E un mondo che in pochi mesi, grazie a scienziati straordinari, è riuscito a trovare il vaccino, non è stato in grado di trovare soluzioni per permetterci di tenere per mano i pezzi più importanti della nostra vita. Qualcuno, almeno, è riuscito a dar vita alle stanze degli abbracci - luoghi ancor più fondamentali in questo momento di totale assenza di normalità -, ma pare che sia la cosa più complicata del mondo anche realizzare strutture di questo tipo o pensare, come giustamente suggerisce lei, ad un esercito della bontà che possa invece aiutarci, in questo momento, a videochiamare i nostri cari, a sentirli vicini e, soprattutto, a far sentir loro che ci siamo. Mentre le scrivo mi commuovo, perché penso a mio padre. Non avrei mai immaginato di ritenermi fortunato: perché pur perdendolo ho avuto la “fortuna” - visto che è morto nel suo letto (non avendo il covid) - di stargli vicino, insieme a mia madre, ai miei fratelli. E mi commuovo, in particolare, perché penso proprio alla videochiamata che ho fatto per fargli salutare le mie due figlie, poche ore prima della sua morte. Basta poco per dare un senso alla vita. Basta poco per riempire di dolcezza e di presenza un’assenza, una lontananza. Basta poco - e uso quasi un ossimoro - per vivere la morte, per riempire di attenzioni un momento che chi all’improvviso si sente abbandonato rischia effettivamente di considerare solo come il frutto della disattenzione. Lei ha ragione. Non c’è una risposta. Ma va detto che chi doveva permetterci di affrontare in modo diverso la “domanda” (d’affetto, di vicinanza, di condivisione) ha a dir poco sottovalutato quanto i nostri cuori, i nostri occhi e le nostre mani abbiano bisogno di contatto. Sono certo che suo padre avrà capito la situazione. Ma vorrei che chi di dovere si occupasse anche del vaccino della vicinanza, dell’unico antidoto in grado di curare ferite che non si rimarginano. Il virus è spietato, ma - pur rispettando ogni regola e pur prestando la massima attenzione - non permettiamogli di rendere spietata la società.
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