Il femminicidio e l'uso delle fotografie
La cronaca di un femminicidio, con la foto di assassino e vittima con il cappello Alpino, fa male al cuore per chi ha in mente i valori delle truppe di montagna. Ce lo scrive il vice della serzione Ana di Trento. E risponde il nostro Direttore, Alberto Faustini.
Il femminicidio e l'uso delle fotografie
Gentile Direttore, ancora un femminicidio, ancora un atto gravissimo nei confronti di una compagna, di una moglie, di una madre. Ancora una volta una azione che va duramente condannata, ancora una volta mille interrogativi, mille dubbi e una certezza: quella ragazza non ci sarà più, non potrà più crescere i suoi figli. E solo perché ha amato! Una vicenda, quella di Cortesano, che mi ha fatto male, doppiamente male.Male perché ancora una volta mi scaverò dentro, per cercare di capire dove è finito il rispetto dell'altro, male perché ancora una volta ho potuto constatare il poco tatto che usate nel gettare in pasto ai famelici lettori le vostre notizie. Mi spiego: sicuramente in più di una occasione vi siete accorti di quanto amiamo spenderci per gli altri, di quanto orgogliosamente portiamo in testa quel simbolo - per noi sacro - rappresentato dal cappello Alpino. Sono cento anni di storia, sono cento anni di maniche rimboccate e camicie sudate per aiutare il prossimo. Sono cento anni - perché no - di feste e di canti.Sono cento anni di serietà, di onestà, di abnegazione. E vedere pubblicata quella foto, gentile direttore, che in un solo colpo spazza via il nostro operare quotidiano, beh, mi permetta che è tale e quale una coltellata al cuore. Al nostro cuore, al cuore degli Alpini. Chi ci conosce sa che fra di noi non c'è posto per persone che compiono simili gesti... non è un vanto usare violenza sul prossimo, ma è assolutamente un vanto indossare la maglietta degli Alpini, il cappello, quel cappello che ci asciuga il sudore in fronte mentre aiutiamo il prossimo.Lasciate le cose al loro posto, non vi chiediamo null'altro. Buon lavoro.
Renzo Merler - Vicepresidente Vicario Sezione Alpini di Trento
Una donna è stata uccisa, il resto sbiadisce
Parto dalla fine: la rappresentazione della morte spesso - non solo sui giornali, in tv o in rete - diventa quasi beffarda, perché è affidata a immagini piene di sorrisi, a momenti lieti, a istanti pieni di vita. A istantanee da e di un mondo felice che non c'è. Che forse non c'è mai stato. Che certamente non c'è più. La foto dell'adunata degli alpini di Trento a cui si riferisce lei, ritrae ad esempio proprio una coppia felice, almeno all'apparenza. Non toglie nulla al valore della maglietta o del cappello, a mio avviso, ma fa molto riflettere, appunto, su come ci rappresentiamo, su come ci trasformiamo davanti a un obiettivo.
Nel mio piccolo, quando ancora si andava al ristorante, ho visto coppie o famiglie litigare ferocemente, trasformarsi poi otto secondi per un (apparentemente) felicissimo selfie a 32 denti, e infine tornare a discutere.
Nella foto in questione, ad esempio, io ho a lungo guardato gli occhi della povera Deborah, chiedendomi se già soffrisse, se già coprisse il suo assassino non denunciandolo, se già chiudesse gli occhi di fronte a quello che non s'è mai potuto definire amore, visto che era fatto prima di tutto di violenza. Ne ho parlato ieri anche con un amico sociologo, che mi invitava a riflettere su due cose molto importanti. La prima è riferita proprio all'allegria - reale o presunta - della vita, ai sorrisi che emanano alcune foto, messaggi pieni di serenità che poco (anzi: nulla) hanno a che fare con la morte, a maggior ragione quando la morte è legata ad un delitto che ci toglie fiato e parole, che ci costringe - come società - a farci mille domande, a cominciare dalla più importante: si doveva e si poteva evitare, questo femminicidio?La seconda cosa è legata invece al fatto che in quelle immagini l'assassinata e l'assassino fossero insieme. Forse spetta a noi - parlo del mondo dell'informazione - staccare quei due volti, impedire che ci resti nello sguardo un'immagine doppiamente distorta: perché parla di una felicità che non c'è più e di una coppia che non c'è più. Voi che vi spendete per gli altri ogni giorno - cosa che non smetteremo mai di riconoscervi - avrete certamente altre risposte. Io conservo i dubbi. Ma in troppe immagini, tutti noi, tendiamo a raccontare un magnifico Mulino bianco che non c'è. E quel mulino gira tragicamente a vuoto, macinando ben altre verità, in questi momenti così dolorosi.
Però mi lasci dire che una donna è stata uccisa e che l'unica coltellata della quale dobbiamo parlare, oggi, è quella. Il resto diventa minuscolo e irrilevante di fronte alla brutalità di un assassino, di fonte agli occhi pieni di speranza di una donna alla quale è stata tolta la vita. Nemmeno nella società presa nel suo complesso dovrebbe esserci spazio per persone che compiono simili gesti. Ma troppe cose si capiscono dopo. E "dopo", in questo mare di dolore, è solo un dannato sinonimo di "troppo tardi".
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