Acqua: il grido dei torrenti cementificati per l'energia

di Francesca Caprini

«Siamo guardiani: noi che viviamo le montagne, madri delle acque, sangue della Terra. Abbiamo una responsabilità: non possiamo venderle, sarebbe come vendere nostra Madre».

È Berito Cobaria, della popolazione indigena colombiana U’wa, che in visita nelle nostre montagne durante una iniziativa partecipata da associazioni e cittadini, grida il suo appello; lui, che rappresenta un popolo in lotta per la sopravvivenza, minacciato dalla corsa al saccheggio di petrolio e idrocarburi, ci ammonisce: «Le montagne del mondo sono in connessione, la lotta per la loro salvaguardia è una sola». È il 2011, siamo in pieno referendum acqua bene comune. Le sue parole fanno eco a quelle di padre Alex Zanotelli che per tutt’Italia chiedeva di «non vendere la Madre» cioè l’acqua. In questi tre anni l’applicazione del referendum è tutta in salita. Ma in Trentino la tutela delle acque è inevitabilmente connessa con la tutela delle montagne e dei corsi alpini.

A fare oggi due passi a Montagnoli, sotto le maestose guglie del Brenta, qualche dubbio viene: il bacino di innevamento artificiale in costruzione avrà la capienza di 200 mila mq di acqua, servirà un carosello sciistico di 150 ettari di piste, succhierà l’acqua dal fiume Sarca, che a dargli un’occhiata non occorre essere esperti per capire che farà fatica. Vicino c’è Serodoli, dove inizia a giorni un campeggio che durerà fino a fine estate: in una tenda si daranno il cambio coloro che sono contrari all’ampliamento delle piste da sci: «Quello che sta succedendo ci lascia esterrefatti - spiega Nicola Cozzi, presidente degli Accompagnatori trentini - e noi vogliamo che Serodoli resti Serodoli».

Le nostre vallate brulicano di lavori, e oltre agli impianti sciistici, c’è l’idroelettrico, le cui strutture di piccole e medie dimensioni stanno subendo un’implementazione. Prima che i più saltino sulla sedia gridando all’ambientalismo talebano, alla cecità di fronte allo sviluppo, all’idroelettrico come fonte rinnovabile, al turismo sciistico come vocazione del territorio, proviamo a fare un ragionamento, con la finalità comune della salvaguardia delle acque di montagna.

Salendo verso passo Manghen, su per la val Calamento, troviamo ruspe, gru e scavi: cartelli ci informano dei cantieri di due impianti idroelettrici «ad acqua fluente» (uno sul torrente Maso Calamento, l’altro poco più a valle sul torrente Maso di Spinelle), per conto della Masoenergia Srl, società partecipata dalla Provincia, fondata ad hoc sette anni fa con i Comuni di Telve e Scurelle, la Trentino Energia Srl.

«Sull’altro versante avanza il progetto sul rio Cadino - racconta Gigi Casanova di Mountain Wilderness - con la partecipazione del Comune di Castello Molina di Fiemme. Era un fiume di rara poesia, l’ultimo intatto della zona, e noi l’abbiamo cancellato. In Valsugana, Fiemme, val di Sole, ormai è un proliferare di centraline e di progetti. Si approfitta degli incentivi dello Stato. Solo nel Bellunese, già molto colpito, sono stati depositati altri 185 progetti e nell’arco alpino italiano sono più di 1200. In Austria sono 150, e gli ambientalisti sono sul piede di guerra».

Chi appoggia l’utilizzo del piccolo/medio idroelettrico (autorizzando società private o partecipate da enti pubblici), lo ritiene una soluzione ottimale.

Casanova risponde così: «Abbiamo dimostrato, nel convegno internazionale tenutosi in marzo a Pieve di Cadore (Belluno), che la percentuale di energia prodotta da tutto questo idroelettrico è appena l’1,5% a livello nazionale, una cifra irrisoria. Siamo di fronte a una speculazione».
Quello cui accenna Casanova è l’incremento di strutture definite micro-medio idroelettriche, dopo il decreto Bersani del 2007: elogiati da Comuni e aziende private, questi impianti incontrano resistenza fra le popolazioni in molte zone, ma non, ancora, in Trentino. Ci sono i pareri di geologi, allarmati per i possibili smottamenti, sono considerate dannose per gli ecosistemi e per l’integrità del paesaggio.

Nel Bellunese in moltissimi si mobilitano da tempo, non solo per il tragico ricordo del Vajont ma per l’ipersfruttamento (idroelettrico e irriguo per la pianura veneta), senza eguali in Europa, del bacino del Piave, fra l’altro senza vere ricadute economiche sul territorio.

Recentemente i difensori dei fiumi hanno incassato una lucida vittoria, quella per la valle del Mis e dell’omonimo torrente che scende dal passo Cereda, al confine trentino: anni di marce e ricorsi giudiziari contro la costruzione di una centrale idroelettrica e per la salvaguardia di un’area selvaggia del Parco nazionale Dolomiti bellunesi. A cantieri già avanzati, è arrivata la sentenza definitiva della Cassazione che ha accolto le ragioni promosse da Comitato bellunese acqua bene comune, Wwf, Cai e associazione amici del Parco: centrale bloccata ma ora nessuno si assume i costi del ripristino ambientale sull’alveo del torrente cementificato.

Se i cittadini non si fossero mobilitati, il progetto sarebbe stato attuato, ma ormai da queste parti l’attenzione è altissima e nel mirino c’è la Regione Veneto, accusata di rilasciare autorizzazioni facili per una sorta di «colonizzazione» (non l’unica) della montagna bellunese.


«È artificializzato il 90% dei nostri corsi d’acqua. Implementare il piccolo e medio idroelettrico vuol dire incidere sul restante 10%», spiega Valter Bonan nota esponente dei movimenti per l’acqua e ora anche assessore all’ambiente e ai beni comuni a Feltre, seconda città della provincia dopo Belluno. «Non esiste una visione d’insieme del consumo idrico nelle montagne: fra bacini artificiali, irriguo, idroelettrico e turismo sciistico, l’impatto è devastante. Per anni le concessioni hanno dato più acqua di quella che c’era. Bisogna ragionare sulla conversione delle produzioni agricole intensive, sulla razionalizzazione dei consumi.

Gli enti locali strozzati dai patti di stabilità svendono il territorio e non si fa una valutazione dell’effetto cumulativo dei vari interventi: l’impatto va oltre quello di ogni singolo impianto. Bisogna ragionare su quello che la tecnologia ci offre per poter risparmiare energia, non produrne ulteriore».
Il Comitato bellunese sottolinea, fra l’altro, che rendendo più efficienti con l’innovazione tecnologica le grandi centrali storiche esistenti si otterrebbe un risultato più rilevante ai fini della produzioni, senza intaccare un ecosistema già gravemente offeso e spezzando il circolo vizioso della corsa a nuovi impianti alimentato da generosi incentivi statali (pagati da noi tutti in bolletta) che assimilano l’idroelettrico alle vere energie rinnovabili.

Intato l’Italia pianifica un aumento della produzione elettrica. Alla base c’è la questione economica e energetica.
Che per le montagne deve necessariamente confrontarsi con altri valori: quelli indentitari, connessi ad agricoltura sostenibile, artigianato, ecoturismo; e con il cambiamento climatico: «Le Alpi fungono da sistema di preallarme.
Inoltre, necessitano di corrente elettrica a buon mercato per azionare le stazioni di pompaggio delle centrali idroelettriche. Buona parte del fabbisogno energetico delle regioni alpine è coperto importando fonti fossili e benché proprio le Alpi siano predestinate a produrre energia sfruttando fonti più ecologiche come il sole o il legno, questo potenziale è inutilizzato», si legge nel rapporto della Cipra. I presupposti per un futuro energetico sostenibile, dunque, vanno creati sviluppando modelli innovativi e peculiari.

Berito, lo sciamano colombiano, quando parlava del legame che la Marmolada ha verso il suo ghiacciaio sacro, quello del Cocuy, non mentiva. Di fatto, c’è un filo blu che collega le nostre montagne con gli accadimenti, ad esempio, in Patagonia (come la vittoria giudiziaria contro HidroAysen di cui abbiamo scritto sull’Adige del 9 luglio scorso): è un filo fatto d’intrecci che hanno a che fare con il modello energetico imperante, la sua concezione, i suoi attori.

C’è l’italiana Enel, che in Trentino, come nel Bellunese, come in America latina, promuove progetti idroelettrici con il marchio «Green Power»; ci sono politiche economiche che permettono a queste multinazionali un gioco di scatole cinesi estraneo al risparmio energetico. Ci sono le logiche globali che hanno reso anche l’inquinamento una merce che si può «acquistare» da altri per mettersi in regola.

Se una multinazionale costruisce una centrale idroelettrica in Colombia guadagna un certo numero di quote «verdi», che permette alle multinazionali del Nord di continuare a emettere Co2 in cambio dello sviluppo di progetti di energia cosiddetta «rinnovabile» nel Sud del mondo. Poco importa che la costruzione in Colombia sfolli comunità locali, sia legata al conflitto nazionale e distrugga l’equilibrio idrogeologico.
Siamo alla finanziarizzazione della natura e l’acqua, le fonti, i bacini montani, non ne sono esenti. Adottare anche qui, sulle Dolomiti, questo modello rende fragili i nostri territori, geologicamente così come politicamente.
E così anche il piccolo e ricco Trentino si espone all’aggressività dei mercati.

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