Eternit, Cassazione contestata «Ora processo per omicidio»
Eternit: un processo sbagliato, nato morto, e con un’accusa che non conteneva tutti i reati contestabili al magnate svizzero Stephan Schmidheiny. Come l’omicidio colposo e le lesioni che, se usati per rinviarlo a giudizio, non sarebbero andati incontro alla prescrizione che ha falciato il procedimento - intentato per disastro innominato, ossia ai danni dei lavoratori e della popolazione locale - prima ancora della sentenza di primo grado.
Cancellando così il diritto delle centinaia di vittime dell’amianto ad essere almeno indennizzate per la lenta agonia che ha divorato e divora, tuttora, i polmoni e le vite di intere comunità. È questo, spiega la Cassazione - con la sentenza 7941 depositata ieri - il motivo per cui lo scorso 19 novembre, tra le polemiche e lo sgomento delle parti civili, i supremi giudici hanno cancellato la condanna di Schmidheiny a diciotto anni di carcere.
La Procura di Torino - grande sconfitta in questa dolorosa odissea giudiziaria - reagisce subito dopo aver conosciuto le motivazioni della sentenza: è il pm Raffaele Guariniello, lo stesso che ha fermamente sostenuto l’accusa di disastro, a rendere noto di aver chiesto un nuovo rinvio a giudizio di Schmidheiny, questa volta per l’omicidio volontario aggravato di 258 persone, tra il 1989 e il 2014. Secondo l’accusa, «nonostante sapesse della pericolosità dell’amianto», avrebbe «somministrato comunque fibre della sostanza». Le aggravanti ipotizzate sono quelle dei motivi abietti, della volontà di profitto e del mezzo insidioso, l’amianto.
Tornando alla Cassazione, questa ha stabilito che «il Tribunale ha confuso la permanenza del reato con la permanenza degli effetti del reato, la Corte di Appello ha inopinatamente aggiunto all’evento costitutivo del disastro eventi rispetto ad esso estranei ed ulteriori, quali quelli delle malattie e delle morti, costitutivi semmai di differenti delitti di lesioni e di omicidio». Insomma la Suprema Corte rimprovera chi ha scelto la strada del disastro, che è un reato di pericolo. Ossia, punisce chi crea le condizioni per mettere a rischio la pubblica incolumità, indipendentemente dal fatto che il pericolo si materializzi o meno. È un reato che non comprende i suoi possibili effetti, come morti e feriti. E che, a causa della ex Cirielli, si prescrive al massimo in quindici anni.
In base ai conti della Cassazione, «a far data dall’agosto dell’anno 1993» era ormai acclarato l’effetto nocivo delle polveri di amianto la cui lavorazione, in quell’anno, era stata «definitivamente inibita, con comando agli enti pubblici di provvedere alla bonifica dei siti». «E da tale data - proseguono gli ‘ermellinì - a quella del rinvio a giudizio (2009) e della sentenza di primo grado (13 febbraio 2012) sono passati ben oltre i 15 anni previsti» per «la maturazione della prescrizione in base alla legge 251 del 2005».
«La consumazione del reato di disastro - spiegano i supremi giudici - non può considerarsi protratta oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri» d’amianto «prodotte dagli stabilimenti» gestiti da Stephan Schmidheiny, e cioè «non oltre il mese di giugno dell’anno 1986, in cui venne dichiarato il fallimento delle società del gruppo». Con il default del business dell’amianto, messo al bando per la sua nocività, «venne meno ogni potere gestorio riferibile all’imputato e al gruppo svizzero», osserva la Cassazione, e gli stabilimenti (Casale Monserrato e Cavagnolo in Piemonte, Napoli-Bagnoli in Campania e Rubiera in Emilia) cessarono l’attività produttiva «che aveva determinato e completato per accumulo e progressivo incessante incremento la disastrosa contaminazione dell’ambiente lavorativo e del territorio circostante».
E il milionario svizzero non «paga» nemmeno per non aver bonificato le fabbriche dismesse e le ampie aree contaminate. La legge non lo prevede. La fattispecie incriminatrice del reato di disastro - spiega l’alta Corte - «non reca traccia di tale obbligo, nè esso, o altro obbligo analogo, può desumersi dall’ordinamento giuridico, specie se riportato al momento in cui lo stesso dovrebbe considerarsi sorto (1986)».
Indubbiamente l’Italia e la sua classe politica - non manca di notare la Cassazione - si sono adeguate in ritardo alle direttive comunitarie sull’amianto e hanno fatto orecchi da mercante alla sua letalità attestata già negli anni ottanta. Ma indubbiamente, nel 1993, quando l’Italia si dota finalmente di una legge anti-amianto, era chiaro a tutti che questa produzione aveva ‘avvelenatò lavoratori e popolazioni locali. Omicidio colposo e lesioni, questa era la strada.
Guariniello sottolinea: non c’è stato nessun errore nell’impostare il processo. È stata la Cassazione, semmai, a cambiare idea sul reato di disastro ambientale. «La Corte di Cassazione ha adottato un’idea di disastro diversa rispetto a quella della sua pronuncia del 2007, quella relativa a Porto Marghera, cui ci eravamo ispirati», sostiene il pm, che con il collega Gianfranco Colace ha sostenuto l’accusa nei primi due gradi di giudizio. «Ne prendiamo atto e d’ora in poi ci atterremo a questo nuovo concetto di disastro», si limita ad aggiungere il magistrato torinese. Per il quale le motivazioni della sentenza che la i giudici supremi hanno pronunciato lo scorso 19 novembre altro non è che «il via libera» alla nuova richiesta di rinvio a giudizio« per il magnate svizzero.
Non usano mezze parole per ribadire il proprio sdegno i parenti delle vittime dell’amianto,che parlano di «sentenza anacronistica».
Per loro la suprema Corte «ha seguito una logica giuridica che andava bene 80 anni fa», senza tenere conto per altro del fatto che «il disastro è ancora in essere negli effetti e nelle cause».
Casale Monferrato, la capitale dell’Eternit, dove ogni anno 50 persone muoiono per gli effetti dell’amianto, ripiomba nel dolore e nella rabbia.
«Il dolore non va in prescrizione, i morti continuano, l’ultimo ieri sera», afferma la prima cittadina, Titti Palazzetti. Che rinnova la richiesta al Parlamento di dar corso al disegno di legge per introdurre il nuovo reato di disastro ambientale. «Non possiamo continuare ad avvalerci di leggi e codici degli anni Trenta del secolo scorso.
Nel frattempo il mondo è cambiato e non è più sostenibile accettare che ci siano persone e aziende che inquinano e che possano andarsene indisturbate: chi inquina deve pagare, sia i danni ambientali sia i danni alla popolazione. È una battaglia non solo per Casale Monferrato, ma anche per Taranto, Augusta, la Terra dei fuochi e tutte quelle zone d’Italia colpite nel profondo dai disastri ambientali perpetrati con disinvoltura nei decenni».