Nelle leggende la storia del clima alpino
Un nuovo filone di ricerca, quello antropologico, si sta sviluppando nello studio del clima del passato: le leggende e i racconti tramandati dai montanari sulle Alpi aiutano gli studiosi a ricostruire le dinamiche glaciali dei secoli scorsi, «incrociando» i dati climatici e le cronache conservate negli archivi.
Per effetto del riscaldamento globale vediamo ricomparire elementi del paesaggio che per alcuni secoli sono rimasti celati sotto coltri bianche, ma che prima della «Piccola età glaciale» (il peggioramento climatico che fra metà ‘500 e metà ‘800 causò una forte estensione delle superfici glaciali alpine) erano scoperti.
È ciò che studia Marta Villa, antropologa dell’Università di Trento, che il 20 ottobre porterà a Bologna, al convegno del Cai «Cambia il clima», la relazione «Quei ghiacciai maledetti: il cambiamento climatico nelle leggende alpine attraverso lo sguardo dell’antropologia culturale». Uno sguardo che va costruito studiando capillarmente le valli delle Alpi: «Molti dati - ci spiega - sono nascosti nelle pieghe della tradizione».
Come è iniziata questa ricerca?
«La ricerca è partita quasi dieci anni fa, in occasione della mia ricerca di dottorato in antropologia alpina; sono poi stata sollecitata da un corso sul clima organizzato dal Cai. È una ricerca work in progress, perché spesso queste leggende sono custodite nella memoria orale degli anziani: da un lato c’è la raccolta, dall’altro l’incrocio dei dati, con gli esperti di glaciologia e di chi studia la dendrocronologia, e questo ci permette di datare le leggende. Quasi tutte sono all’incirca dal Seicento in poi, il periodo della Piccola età glaciale».
Alcune sono legate all’optimum climatico medievale precedente...
«Gli uomini delle Alpi hanno visto come gravissimo momento di crisi sociale - ecco perché poi nasce la leggenda - il passaggio ?brusco? dall’optimum climatico, che è arrivato in alcuni casi fino al ‘500, al raffreddamento.
La leggenda della città di Felik, che prendo come archetipo, racconta un fatto vero, testimoniato dagli studi di archeologia medievale. Il passo che sul Monte Rosa portava dalla Valsesia al Vallese era aperto, e i cronisti dell’epoca ne parlavano. Quando i ghiacciai hanno coperto il colle, da cui si passava soprattutto per il commercio, per gli abitanti della Valsesia è stato un dramma. Ci sono due leggende: una racconta l’esistenza al Felik di un paese prospero i cui abitanti erano avari, duri di cuore, dove un giorno arrivò un viandante malconcio che chiese ospitalità. Nessuno gli diede nulla. Quando ripartì lanciò una maledizione, dicendo che avrebbe cominciato a nevicare fino a ricoprire il paese. I valligiani non gli diedero retta, iniziò a nevicare e il giorno successivo gli abitanti a valle videro che al posto della città c’era un enorme ghiacciaio. Le leggende di altre zone delle Alpi - sul Bernina, sulla Marmolada, al Rutor e in Val Senales - sono simili e raccontano un fatto reale - la recrudescenza climatica che ha allungato i ghiacciai - con una giustificazione morale cristiana, il senso di colpa: Dio punisce gli abitanti delle Alpi cattivi, duri di cuore. E questo può essere agganciato all’oggi».
E la leggenda della Marmolada?
«Invece che uno straniero, c’è una vecchietta che nel giorno dell’Assunta, il 15 agosto, anziché fare festa sale a tagliare l’erba e dileggia la Madonna.
In una versione c’è una frana, in un’altra la neve copre i pascoli».
Leggende unite dalla componente religiosa...
«Siamo in un’epoca in cui è appena passata la Controriforma e nelle Alpi c’è lo scontro fra Protestantesimo e Cattolicesimo. La colpa è molto più presente che nel Rinascimento».
Nelle valli protestanti svizzere?
«Non ne abbiamo trovate, finora: ciò potrebbe essere un sintomo delle diverse percezioni dell’ambiente naturale nelle due culture».
Lo sguardo dell’antropologo incrocia quindi i dati scientifici.
«Vediamo ricomparire elementi del paesaggio che erano stati coperti per due, tre secoli dalla piccola glaciazione e che prima erano emersi, come testimoniano queste leggende e racconti. Ci sono oggi due filoni di ricerca antropologica, sulle catastrofi e sui cambiamenti climatici, tanti elementi, tanti dati sono nascosti nelle pieghe della tradizione e servono agli scienziati».