Un anno fa ci lasciava Cesare Maestri. Il figlio Gian: «La sua è stata una vita straordinaria»
I ricordi, e il carattere: non amava la montagna di oggi «diventata un luna park», ma sapeva trasmettere a tutti la bellezza della natura e dell’alta quota
TRENTO. Alla fine di una vita straordinaria, costellata di imprese che lo hanno portato ai vertici dell’alpinismo, il 19 gennaio dello scorso anno Cesare Maestri ci ha lasciati. Aveva 91 anni, trascorsi in buona parte sulle montagne, talvolta arrampicando da solo, in salita e in discesa anche sulle difficoltà massime della sua epoca, il sesto grado.
La storia di Maestri come fuoriclasse dell’arrampicata è nota - parlano per lui oltre 3.500 ascensioni - e dalle pagine dei suoi libri sgorgano schiettezza, amicizia, generosità, umanità. Ma Cesare Maestri non è stato solo un alpinista formidabile e un mito per generazioni di scalatori, e di questo abbiamo parlato con il figlio Gian chiedendogli una testimonianza più personale.
È trascorso meno di un anno dalla morte di Cesare: quali sono i suoi ricordi più vivi del papà? E i più belli?
«Per i ricordi più vivi che ho su Cesare non ho esitazioni nel dire che sono quelli legati agli ultimi anni della sua esistenza. Papà nel corso della sua vita si era costruito un alone particolare che evidenziava il suo carattere di uomo deciso, orgoglioso, padrone di sé, restio a limitazioni o compromessi di sorta, estremo difensore delle proprie idee, indipendente e pronto a rispondere a qualsiasi provocazione. Cesare però negli suoi ultimi due anni era ormai in balia di una condizione fisica e mentale che non gli permettevano più di sostenere la sua vera natura, si rendeva conto di essere sceso da un piedistallo su cui era vissuto per così tanti anni e credo che la sua grande forza sia stata accettarlo, adattando la sua filosofia di vita a questa nuova condizione. Pur non riuscendo più a stare in piedi senza l’aiuto del girello tutte le mattine si metteva in gioco facendo mezz’ora di cyclette a cui faceva seguire delle serie di esercizi per rimanere in movimento, e con una incredibile volontà riusciva a rimanere aggrappato ad una sorta di vita avventurosa che nel suo intimo era riuscito a crearsi. Ecco perché devo dire che in fondo i ricordi più vivi si legano e diventano anche quelli più belli, momenti di grande intensità in cui le persone riflettono, dando come lui stesso diceva “un senso alla vita”».
Che cosa le ha trasmesso del mondo della montagna e del suo alpinismo?
«Io non ho mai seguito le orme di Cesare e nemmeno lui ha mai cercato di introdurmi nel suo mondo, ho seguito altre strade sempre nello sport con lo sci ed il tennis, facendoli anche diventare più avanti fonte professionale di vita. Ho comunque sempre cercato di assorbire dal suo modo di fare alpinismo l’impegno e la dedizione che incredibilmente dedicava a quella attività e che lui stesso sintetizzava dicendo “quando arrampicavo facevo in modo con tutto me stesso, con il fisico e con la mente, di raggiungere livelli tali per diventare il migliore”. Ho invece conosciuto bene il mondo della montagna che lo ha accompagnato nel corso della sua vita, ricordi meravigliosi riguardo a mille vicende vissute insieme a lui ed alla mia mamma Fernanda, amicizie profonde ci hanno sempre legati ai suoi compagni di cordata ed alle loro famiglie, come anche dimostrazioni di stima e di affetto da parte degli organi di informazione e di tutto il mondo che gravita attorno all’alpinismo che per il nostro Trentino è diventato parte importante della sua storia. Cesare ha sempre coinvolto moto la famiglia in quanto lui faceva, per questo motivo ho avuto modo di conoscere anche un lato del mondo alpinistico che poco ha a che vedere con quello che di solito la gente si immagina che sia. Un mondo che mi ha insegnato l’amore per la natura e le nostre montagne, ma mi ha anche fatto capire che è comunque anche un posto dove si trova invidia, malfidenza ed arrivismo come in una qualunque società di qualsiasi città metropolitana».
Oltre che un formidabile alpinista, Cesare Maestri è stato un conferenziere apprezzato e un autore di libri di successo. Qual è il suo ricordo di Cesare scrittore?
«Cesare era un istrione, dicono tutti che fosse una di quelle persone che in mezzo ad altra gente attirava comunque su di lui l’attenzione, durante le sue conferenze questa abilità innata di coinvolgere usciva prepotentemente e creava una atmosfera unica. Ricordo in Spagna, a Barcellona, dove la mamma ed io lo accompagnammo per una serie di serate dopo il Torre del 1970, nel teatro più importante della città alla fine della conferenza condotta con il suo spagnolo arrangiato, le persone si alzarono tutte in piedi sventolando il fazzoletto bianco come si usava fare con i toreri che avevano fatto una corrida eccezionale. La vita di Cesare è stata una vera epopea, dall’inizio alla fine, e nei suoi libri è riuscito a raccontarla bene. Credo che il suo scritto migliore sia stato “E se la vita continua”, in cui la montagna è per assurdo addirittura marginale, rispetto al racconto di una vita che è stata un’avventura».
Padre e fratelli erano persone di spettacolo: c’era in lui qualcosa di questa eredità teatrale?
«Lui stesso sosteneva che nel sangue avesse l’impronta che mamma e papà avevano tramandato ad Anna, Giancarlo e così anche a lui. In effetti Cesare non ebbe mai a che fare con il mondo teatrale, il periodo in cui rimase a Roma fu di neppure un anno, poi scappò via tornando alla sua Trento, ritrovando però i vecchi amici che per un periodo lo presero in giro come “il romano”. Anche nel suo alpinismo ci fu una componente spettacolare, credo che questo fece bene a quel mondo che ai tempi era molto chiuso e fece si che anche una sana componente teatrale contribuì a divulgare l’alpinismo verso persone che grazie a ciò diventarono degli appassionati».
Fra gli autori che citava c’è Hemingway: amava la narrativa? E cosa leggeva principalmente?
«Cesare arrivò fino alle scuole elementari e neanche quelle fatte bene, la sua famiglia era molto povera e la mamma morì che lui aveva sei anni, suo padre non aveva la dote della conduzione familiare e perciò in qualche modo la loro nonna insieme ad Anna gestirono Cesare e Giancarlo in periodo di guerra. Si può immaginare quanto tempo dedicasse alla cultura un giovane uomo in quei tempi ed in quelle condizioni. Per quel motivo più tardi, ormai cresciuto Cesare volle arricchirsi aumentando la sua cultura in diversi campi, ci riuscì soprattutto leggendo classici dell’epoca e citando nei suoi discorsi pensieri di grandi scrittori e filosofi lasciava a bocca aperta coloro i quali si intrattenevano con lui. Tra tutti i classici da lui preferiti credo che posso senz’altro citare erano le poesie dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters in cui trovava continuamente spunti per lui significativi. Una delle citazioni che amava ripetere era anche di Hemingway quando diceva “La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana, essa suona per te”».
Cesare ha più volte espresso il suo pensiero sulla politica, o sull’ambiente: come definirebbe le sue idee e le sue prese di posizione?
«Cesare in gioventù fece la staffetta dei partigiani e fece anche parecchi danni alle truppe tedesche di stanza a Trento, rubando dalle loro caserme armi e viveri che poi insieme ai suoi compagni distribuivano alla gente in lotta contro di loro. Logicamente in quei tempi non c’erano le mezze misure, eri o di destra o di sinistra, Cesare era di sinistra e per qualche anno fu iscritto anche al Partito Comunista. In seguito le sue posizioni si ammorbidirono, ma in lui rimase sempre una ideologia fondata su basi di sinistra. Quello che lo rendeva intransigente invece era il discorso ambientale, per le nostre montagne vedeva un futuro da luna park e molte volte si batteva contro i mulini a vento mettendoci la faccia e raccogliendo parecchie antipatie da parte dei nostri governanti».
Davanti agli occhi, ogni giorno Cesare aveva il Brenta. C’era qualche luogo per lui speciale lassù? «Non ho alcun dubbio nel dire che il Campanile Basso fosse per lui la più bella montagna del mondo e fu anche la montagna su cui conobbe l’alpinista per lui di riferimento all’epoca, Bruno Detassis, Famosa fu la volta che lui fece la sua prima salita trovando in cima Bruno che festeggiava la sua centesima, e da li nacque una amicizia veramente profonda. Anche la Cima Campiglio era per lui una parete importante, l’aveva scalata con il suo compagno Claudio Baldessari, è impressionante vedere quanto sia strapiombante la cima rispetto alla base, me lo faceva notare ogni volta che si passava in macchina venendo verso Campiglio costeggiando lo spettacolo del Brenta. Ora quello spettacolo è ancora proprio davanti a lui, nel bellissimo cimitero che è una finestra su questo incredibile paesaggio».