Viaggio nella disperazione
Rovereto, in viaggio nel degrado con la polizia locale. Dove si sta al freddo, senza bagno e tra i rifiuti. L'operazione dei vigili è partita ieri mattina, alle 6.30. All'ex Alpe erano in sette: stanno in Italia per un mese, poi tornano a casa con qualche soldo e regalo per i figli
Gli agenti della polizia locale sono partiti presto, ma non prestissimo. Perché l'obiettivo è beccarli appena svegli, prima che escano a chiedere l'elemosina. Ma nessuno vuole tirarli giù dai materassi su cui dormono fingendo che quella sia una casa. È una questione di umanità. Perché uomini sono. E donne. Buttati dalla vita ai margini, ma restano persone. E serve rispetto. Per questo ieri i vigili sono partiti poco dopo le 6.30. L'obiettivo era quello di controllare gli angoli in cui cerca riparo chi fatica a ripararsi dalla vita. Ci si va più o meno una volta ogni 20 giorni, perché la città pretende sicurezza e si agita quando vede quelle ombre sgusciare dentro i cancelli di ex fabbriche che in pochi ormai si ricordano cosa producessero.
Si comincia dall'ex Macello. Qui pare viva Valentin, il più anziano del gruppo arrivato da Mon Medias, angolo della Romania che lui si è lasciato indietro anni fa. Ma ieri lui non c'era. C'erano le sue cose. I resti di una cena, un'infinità di rifiuti, una cucina allestita alla meglio. E il materasso, o meglio i materassi, perché lì hanno vissuto in tanti. «Qui non c'è sempre la stessa gente. Arrivano e si sistemano negli spazi preparati da altri - spiegano i vigili - non si litigano nemmeno i posti». Dev'essere che quando non hai niente sei più disposto a condividere.
Dall'ex Macello si passa all'ex Alpe. Passato il cancello c'è silenzio, niente si muove tra lo scheletro ferroso di quella che fu una fabbrica. Poi si salgono le scale e si trovano i primi segni di vita. I rifiuti. Bottiglie di plastica e lattine di birra, stracci che furono vestiti, rimasugli di cibo, confezioni di biscotti, piatti rotti. Ammassati all'angolo di quegli enormi locali spazzati dal vento.
Ma le persone sono più su, nel cuore dell'ex Alpe. Dove i vetri alle finestre in alcuni casi ci sono ancora, in altri sono stati sostituiti con dei cartoni. Ieri erano sette quelli che stavano iniziando la giornata, divisi in tre stanze. La quarta è il bagno. Lo si sente scostata la tenda, lo si capisce dai fazzolettini di carta sparsi su tutto il pavimento.
Vedendosi davanti i vigili, hanno solo annuito, rassegnati. Tre donne, due molto giovani - 22 e 24 anni - l'altra di 48 anni. Gli altri sono uomini, più o meno imparentati.
Fuori dalla camera, una decina di borse. Perché hanno fatto compere: sabato tornano in Romania. Ci sono vestiti, provviste. E le uova di Pasqua per i bambini che aspettano a casa. «Io ne ho due, di 6 e 4 anni» spiega Marsela. Una bella ragazza, che davanti agli sconosciuti arrivati a cacciarla, si nasconde dietro una risata nervosa. «Veniamo in Italia un mese, raccogliamo un po' di soldi e poi torniamo, portando denaro e altre cose». Cosa? Tutto quel che la gente regala loro: «Ci sono persone buone, ci portano vestiti, cibo. Anche alla Caritas che li hanno dati». Ogni settimana da Trento parte un pulmino o un furgone alla volta della Romania. Il biglietto costa 60 euro. «Li guadagnamo in tre giorni. Lavorando qui e là, io faccio pulizie, e chiedo l'elemosina».
La storia delle pulizie non è vera. Ai vigili risulta che si limiti a tendere la mano, ma cerca di farlo mantenendo la dignità. È pulita, lo sono tutti. Fuori dalla sua camera c'è uno specchio, con il sapone a fianco, lamette e schiuma da barba per gli uomini, l'acqua in una bacinella poco distante. Dev'essere fredda. Tanto.
Ma è nell'altra ala che si stringe la gola. Nella camera dove gli spifferi si sentono nelle ossa e si possono pure ascoltare per via delle tapparelle in legno che vibrano all'aria. I due letti sono fatti, i vestiti sono piegati su tre assi, sulla dispensa - dove si notano poche cose, qualche scatoletta, latte, zucchero, caffè - un vaso di fiori finti. Quelli che si trovano ovunque nell'Europa dell'Est. Un segno di casa, o forse un segno di gentilezza, dove di gentile non c'è più niente.
Escono tutti. Per qualche giorno dovranno trovarsi un altro riparo.
E altrettanto dovrà fare Corneliu, 54 anni, rumeno. Lui era all'ex Microleghe. Di solito sta al centro d'accoglienza, ma è dovuto andar via: non ci si può stare per sempre, deve fare una «pausa» di una settimana.
Vede i vigili, saluta e ringrazia. E poi racconta che la vita è stata anche altro, un tempo. «In Romania ho fatto il liceo, poi l'accademia aeronautica. Lavoravo sugli aerei civili, come ingegnere aeronautico». Stava bene. Una moglie, due figli. Poi il muro è caduto, il mondo è cambiato. E lui è stato travolto. «Perso il lavoro, un po' ho provato, come agente di assicurazioni. Ma non si guadagnava, così sono arrivato in Italia». Ha guadagnato, all'inizio. Spesso in nero, ma comunque bene. Perché lavorava, perché «ho sempre lavorato, io, nella mia vita». Ha mandato i soldi a casa, ha fatto studiare i figli, ora entrambi laureati. Uno dei due sogna di fare un master all'estero. «Ma costa e qui dal 2009 non trovo quasi niente». L'ultimo lavoro, la raccolta di mele. È iscritto al centro per l'impiego, ha fatto un corso da aiuto cuoco, parla tedesco e inglese, ha mandato il curriculum in Germania. E adesso aspetta, sperando. Intanto ieri mattina ha preso le sue cose - stava tutto in uno zainetto - e se n'è andato. Ha ringraziato e se n'è andato verso un caffè caldo alla Caritas. E poi? E poi si cercherà un altro angolo da occupare, in attesa di poter tornare al centro d'accoglienza.
I vigili lo guardano andar via. Sanno già che tornerà. Tornano sempre.
Si comincia dall'ex Macello. Qui pare viva Valentin, il più anziano del gruppo arrivato da Mon Medias, angolo della Romania che lui si è lasciato indietro anni fa. Ma ieri lui non c'era. C'erano le sue cose. I resti di una cena, un'infinità di rifiuti, una cucina allestita alla meglio. E il materasso, o meglio i materassi, perché lì hanno vissuto in tanti. «Qui non c'è sempre la stessa gente. Arrivano e si sistemano negli spazi preparati da altri - spiegano i vigili - non si litigano nemmeno i posti». Dev'essere che quando non hai niente sei più disposto a condividere.
Dall'ex Macello si passa all'ex Alpe. Passato il cancello c'è silenzio, niente si muove tra lo scheletro ferroso di quella che fu una fabbrica. Poi si salgono le scale e si trovano i primi segni di vita. I rifiuti. Bottiglie di plastica e lattine di birra, stracci che furono vestiti, rimasugli di cibo, confezioni di biscotti, piatti rotti. Ammassati all'angolo di quegli enormi locali spazzati dal vento.
Ma le persone sono più su, nel cuore dell'ex Alpe. Dove i vetri alle finestre in alcuni casi ci sono ancora, in altri sono stati sostituiti con dei cartoni. Ieri erano sette quelli che stavano iniziando la giornata, divisi in tre stanze. La quarta è il bagno. Lo si sente scostata la tenda, lo si capisce dai fazzolettini di carta sparsi su tutto il pavimento.
Vedendosi davanti i vigili, hanno solo annuito, rassegnati. Tre donne, due molto giovani - 22 e 24 anni - l'altra di 48 anni. Gli altri sono uomini, più o meno imparentati.
Fuori dalla camera, una decina di borse. Perché hanno fatto compere: sabato tornano in Romania. Ci sono vestiti, provviste. E le uova di Pasqua per i bambini che aspettano a casa. «Io ne ho due, di 6 e 4 anni» spiega Marsela. Una bella ragazza, che davanti agli sconosciuti arrivati a cacciarla, si nasconde dietro una risata nervosa. «Veniamo in Italia un mese, raccogliamo un po' di soldi e poi torniamo, portando denaro e altre cose». Cosa? Tutto quel che la gente regala loro: «Ci sono persone buone, ci portano vestiti, cibo. Anche alla Caritas che li hanno dati». Ogni settimana da Trento parte un pulmino o un furgone alla volta della Romania. Il biglietto costa 60 euro. «Li guadagnamo in tre giorni. Lavorando qui e là, io faccio pulizie, e chiedo l'elemosina».
La storia delle pulizie non è vera. Ai vigili risulta che si limiti a tendere la mano, ma cerca di farlo mantenendo la dignità. È pulita, lo sono tutti. Fuori dalla sua camera c'è uno specchio, con il sapone a fianco, lamette e schiuma da barba per gli uomini, l'acqua in una bacinella poco distante. Dev'essere fredda. Tanto.
Ma è nell'altra ala che si stringe la gola. Nella camera dove gli spifferi si sentono nelle ossa e si possono pure ascoltare per via delle tapparelle in legno che vibrano all'aria. I due letti sono fatti, i vestiti sono piegati su tre assi, sulla dispensa - dove si notano poche cose, qualche scatoletta, latte, zucchero, caffè - un vaso di fiori finti. Quelli che si trovano ovunque nell'Europa dell'Est. Un segno di casa, o forse un segno di gentilezza, dove di gentile non c'è più niente.
Escono tutti. Per qualche giorno dovranno trovarsi un altro riparo.
E altrettanto dovrà fare Corneliu, 54 anni, rumeno. Lui era all'ex Microleghe. Di solito sta al centro d'accoglienza, ma è dovuto andar via: non ci si può stare per sempre, deve fare una «pausa» di una settimana.
Vede i vigili, saluta e ringrazia. E poi racconta che la vita è stata anche altro, un tempo. «In Romania ho fatto il liceo, poi l'accademia aeronautica. Lavoravo sugli aerei civili, come ingegnere aeronautico». Stava bene. Una moglie, due figli. Poi il muro è caduto, il mondo è cambiato. E lui è stato travolto. «Perso il lavoro, un po' ho provato, come agente di assicurazioni. Ma non si guadagnava, così sono arrivato in Italia». Ha guadagnato, all'inizio. Spesso in nero, ma comunque bene. Perché lavorava, perché «ho sempre lavorato, io, nella mia vita». Ha mandato i soldi a casa, ha fatto studiare i figli, ora entrambi laureati. Uno dei due sogna di fare un master all'estero. «Ma costa e qui dal 2009 non trovo quasi niente». L'ultimo lavoro, la raccolta di mele. È iscritto al centro per l'impiego, ha fatto un corso da aiuto cuoco, parla tedesco e inglese, ha mandato il curriculum in Germania. E adesso aspetta, sperando. Intanto ieri mattina ha preso le sue cose - stava tutto in uno zainetto - e se n'è andato. Ha ringraziato e se n'è andato verso un caffè caldo alla Caritas. E poi? E poi si cercherà un altro angolo da occupare, in attesa di poter tornare al centro d'accoglienza.
I vigili lo guardano andar via. Sanno già che tornerà. Tornano sempre.