Porfido, mafia e politica, Walter Ferrari ci spiega la svolta: «obbligarono i dipendenti a fare partita Iva, era il 1988

di Domenico Sartori

«Sì, ci sono. Dammi il tempo di finire di mungere». Adesso tutti lo cercano, “el pegoraro” di Sevignano. Ed il “pegoraro” Walter Ferrari, con la tuta addosso che non maschera l’odore di stalla, il tempo per concedersi a Rai, Rttr e a tutti quelli che, oggi, lo invocano se lo ritaglia. Mi riceve nel maso sopra Sevignano, tirato su un pezzo alla volta, tra mille sacrifici. Nell’atrio che porta alla piccola cucina, una montagna di libri. Sul tavolino, in evidenza, La pensione Eva di Camilleri. Vogliamo provare a capire: com’è stato possibile tutto questo? Com’è che nella valle del porfido è potuta crescere la malapianta della criminalità organizzata? La risposta di Walter Ferrari è una storia che da personale diventa collettiva. Me la racconta. E mai una volta, potrebbe farlo, potrebbe rivendicarlo lui che ha presentato una ventina di esposti-denuncia con il Coordinamento lavoro porfido, spunta l’inciso: «Noi l’avevamo detto!». Chapeau.

Com’è finito, qui, a Sevignano, ad allevare pecore?
«In effetti» sorride «qualcuno mi chiama “extracomunitario”, non solo perché frequento gli immigrati. Sono nato a Lases, nel 1961, vivo qui dal 2013, con Carolina, mia moglie, e ho due figlie: Giulia, ematologa all’ospedale di Bolzano, ed Erika, chimica al laboratorio Charles de Gaulle di Parigi».
Ma perché si occupa, da una vita, di porfido e delle condizioni di vita dei lavoratori?
«Ho cominciato a frequentare le cave a cinque anni: mio padre ha sempre lavorato in cava, prima come operaio, poi come artigiano».
Ha studiato?
«Ho un diploma di perito edile, ma ho subito cominciato a lavorare in cava, con la Avi & Fontana a Lases. Tra il ’79 e l’82 ci furono vertenze dure. Funzionario della Cgil era Guido Brugnara di Ceola. Ma per un giovane era un ambiente asfittico...».
In che senso?
«Lavoro. Soldi. Poi tre mesi invernali di cassa integrazione. Bevute e sbaraccate da un locale all’altro. Non mi andava, e per alcuni anni ho fatto altro: fino all’86 ho lavorato con la Cora, ricerche archeologiche. Sono rientrato in cava nel 1987, e c’era ancora una tutela sufficiente grazie alla rete di delegati costruita da Guido Brugnara. Gli anni tra il ’79 e l’85 furono di impegno sociale, con la fondazione del Comitato di salvaguardia dei laghi di Valle e Lases, minacciati dalle discariche di porfido. Fermammo la mega discarica di Nalbarè. Anni di impegno, denuncia, sensibilizzazione culturale, anche per proporre un’alternativa alle bevute e allo sbaraccare... C’era una buona partecipazione».
Quand’è che, nel settore del porfido, è arrivato il cambiamento?
«Tra l’88 e il ’90 ci fu una consistente immigrazione di lavoratori marocchini e macedoni. Riuscii a costituire un coordinamento interetnico dei lavoratori del porfido, anche osteggiato dal sindacato. Tanto che mi dimisi da delegato di zona della Fillea-Cgil».
Osteggiato?
«Il segretario di allora della Fillea Cgil, Tait, mi attaccò in una assemblea, dicendo che non dovevamo interessarci di immigrati, perché sarebbe stato un fenomeno di passaggio...».
Ma la svolta quando arriva?
«Nel ’93, con la durissima vertenza delle trancette. La magistratura sequestrò le trance a caduta, pericolose per le mani, nocive per le polveri, causa di silicosi, e per il rumore. Collaborava con noi lavoratori Antonio Cristofolini, medico del lavoro. Le aziende erano obbligate a sostituirle per legge e i loro bilanci rivelavano che i magli a caduta erano ammortizzati da tempo. Ma non volevano sostituirli, per continuare a guadagnare».
Come finì?
«L’assessore Bazzanella fece saltare una riunione in Provincia prima di mezzanotte e il lunedì dopo, il senatore Boso della Lega venne ad Albiano e tagliò platealmente i sigilli di alcune trance, senza che la magistratura gliene chiedesse conto. La Lega e i cavatori occuparono piazza Dante con le ruspe e i camion. Era la Lega di Bossi contro gli immigrati e i meridionali, ma in piazza con loro c’erano anche alcuni calabresi oggi agli arresti, come Macheda. Strano, no?».
Lì, ci fu la vera svolta?
«La svolta arriva l’anno dopo, nel ’94, quando, ad Albiano, alcune ditte costringono i lavoratori dipendenti, italiani e stranieri, ad aprire la partita Iva, per fare lo stesso lavoro, alla stessa trancia. Col ricatto: se non lo fai, ti licenzio! È stato l’inizio del processo di esternalizzazione del lavoro. Nessuno denunciò la cosa, se non noi. Hanno esternalizzato non solo la lavorazione dei cubetti, ma anche la cernita del materiale di prima lavorazione. Ed era vietato».
Qual è stata la conseguenza?
«Si è creato un imbuto: tanta offerta, domanda stabile, crollo dei prezzi. E per difendere i margini di profitto si è aperto al lavoro nero, grigio. Ti assicuro per tre mesi all’anno ed il resto in nero. Facendo ricorso alla manodopera più fragile e ricattabile: macedoni, marocchini, soprattutto cinesi».
In concreto?
«Con chi non sa l’italiano, e scrive solo in arabo o cinese, fai quello che vuoi. Ho visto buste paga e contratti fatti firmare in stampatello italiano, in realtà firmati dai datori di lavoro...».
Un passo indietro: quando se ne è andato dalla cave?
«Nel ’96, dopo essere stato demansionato perché avevo fatto attività sindacale. Ci fu una vertenza durissima. I lavoratori si ribellarono alla proposta del sindacato di legare gli aumenti contrattuali all’andamento economico dell’azienda, per la semplice ragione che il falso in bilancio qui è la prassi. In assemblea c’erano solo italiani, vicini alla Lega e ostili agli immigrati. Fui io, alla fine, a licenziarmi. Me ne andai pensando di trovare lavoro altrove».
E invece?
«Fu terribile. Nel settore mi fecero terra bruciata. Emarginato da tutti. Avevo due bambine di dieci anni...».
Come se l’è cavata?
«Due amici mi hanno aiutato, Nicola Degasperi e Michele Bassetti, offrendomi occasioni di lavoro stagionale nell’attività archeologica. E, intanto, ho avviato l’allevamento delle capre. Gli unici a non avere pregiudizi furono gli extracomunitari che, appena potevo, ho aiutato per cercare casa, garantire un sostegno a scuola per i figli. Lo stesso isolamento lo ha patito Massimo Sighel, da presidente dell’Asuc di Miola: licenziato per aver chiesto il rispetto dei canoni dovuti dai cavatori».
Perché la esternalizzazione alle partite Iva ha segnato la vera svolta?
«Fatto questo primo passo, tollerato da tutti, quello successivo è stato conseguente: l’intervento della criminalità. Dalla Valsugana alla valle dell’Adige, è tutto un fiorire di capannoni dove lavorano partite Iva che fanno lo stesso lavoro di quando erano dipendenti, con le stesse trancette. Un mondo di mezzo dove trovi lavoratori pagati completamente in nero o indirizzati a ditte satelliti. Conosco alcuni dei cinesi vittime dei Battaglia, per il quale il giudice parla di condizioni di schiavitù. Li ho aiutati a ottenere una dilazione sugli affitti dell’alloggio, perché non venivano pagati in cava. Ha fatto comodo alle imprese, questo sistema di controllo degli operai e delle comunità».
Perché non è emerso prima?
«Abbiamo fatto un esposto sul rispetto dei contratti di lavoro. Ma le indagini sono state fatte sugli anni successi al 2015. Il mancato rispetto dei contratti avrebbe dovuto portare al ritiro delle concessioni, come previsto dalla legge del 2006. I Comuni, in mano ai cavatori, non hanno mai fatto rispettare l’obbligo, e poi la legge Olivi ha sanato l’illecito spostando l’obbligo al 31 dicembre 2017, coprendo sia le aziende davvero in difficoltà, sia i filibustieri che ne hanno approfittato. A me importa poco che alcuni siano ora finiti in galera. A me preme il fatto che si sarebbe potuto evitare molte sofferenze a tante persone e il degrado del settore e della società civile».

LA FOTO STORICA: Il senatore Enzo Erminio Boso davanti al Tribunale di Trento incita i porfidari a disobbedire alle ordinanze. Pochi mesi dopo andò a rompere i sigilli apposti dalla Magistratura alle macchine nelle cave

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