Niederkofler: «Le mie tre stelle Michelin? Con la cucina del territorio». I segreti del super-chef che porta l’Alto Adige in vetta al mondo
Lo chef si racconta: «Non usiamo prodotti di serra, dipendiamo al 100% dalla natura. La sfida più dura? Ottenere le tre stelle (più quella verde per la sostenibilità) ad appena quattro mesi dall’apertura del nuovo locale a Brunico». Un riconoscimento che hanno solo 33 ristoranti al mondo
BOLZANO. Norbert Niederkofler in Alto Adige ha portato una rivoluzione. Ciò che prima esisteva solo negli agriturismi è diventato il centro di una filosofia culinaria premiata in tutto il mondo. Con «Cook the mountain» - pensiero che lo chef ha sviluppato in testi e convegni - finiscono in tavola solo prodotti del territorio. Nonostante le tre stelle Michelin, più la "stella verde" (per la sostenibilità) che si è aggiunta quest'anno, Niederkofler si definisce "easy". Sorridente e brillante, racconta una storia di impegno e passione, che «ha portato Brunico sulla mappa mondiale».
Il suo nuovo ristorante, «Atelier Moessmer», nell'ex villa padronale della fabbrica di tessuti Moessmer, aperto solo questo luglio, ha convinto subito la celebre guida rossa a confermare lo chef altoatesino tra i primi al mondo. A quattro mesi dalla nuova apertura Niederkofler pensa al futuro della cucina, formando una squadra di giovanissimi, pronti a seguire le sue orme. Lo chef è stato ospite della riunione di redazione dell'Alto Adige.
Tre stelle danno una dimensione totalmente internazionale...
Adesso Brunico è sulla mappa mondiale della cucina. Ci sono 145 tre stelle al mondo, 33 anche con la stella verde. Ma per me la cosa più importante è avere creato una realtà di formazione per l'alta cucina, una possibilità per i giovani locali e non.
È particolare anche la velocità del passaggio da 0 a 3 stelle. Che messaggio dà, secondo lei, al territorio un'ascesa così grande di una realtà altoatesina? Sicuramente che, rispettando la tradizione e la cultura di un territorio, si può arrivare ad alti livelli e grandi risultati.
Il concetto che sta dietro a "Cook the mountain"…
Esatto, la valorizzazione del territorio è al centro della filosofia di questo tipo di cucina. Un pensiero nato quasi per caso... Da giovane non ho mai lavorato in Italia, ho sempre viaggiato. Sono partito che avevo 17 anni e sono tornato a 34, perché Otto Pizzinini, del Castel Colz, aveva bisogno di un cuoco. Poi sono passato alla Rosa Alpina. Nel '96 abbiamo aperto l'Hubertus. In quegli anni facevo una cucina che mi ero portato dietro dalle mie esperienze a New York, Tokyo e Londra. Poi nel 2008 abbiamo preso la seconda stella, gli unici in Alto Adige. Nel frattempo però la clientela era cambiata, molto più internazionale. Mi sono chiesto "adesso come arrivo alle tre stelle?". Allora ho cominciato a chiedere ai clienti perché venivano qui. Mi rispondevano "per la montagna e per il cibo". Ho capito che stavo sbagliando tutto. Da qui è nato "Cook the mountain".
Qual è il lato più difficile di questo tipo di cucina?
Probabilmente i parametri molto restrittivi. Non usiamo prodotti di serra, dipendiamo al 100% dalla natura. Questo significa dover pensare un anno avanti, lavorare in diverse altitudini e latitudini. Però questo è anche un grande punto di forza: oltre ad alimentare un'economia circolare - avendo eliminato del tutto gli intermediari, ogni anno compriamo circa 600mila euro di prodotti locali - è fondamentale sperimentare con quello che si ha. Questo apre infinite strade e in cucina allarga le visioni.
Ad esempio?
Qui non c'è l'olio d'oliva. Bisogna pensare ad alternative. Le erbette di montagna si possono utilizzare per fare degli oli, con basi inodori e insapori. Non abbiamo gli agrumi, dove troviamo l'acidità? Allora sperimentando con la fermentazione abbiamo scoperto, prima con le bacche e poi con le prugne, che si poteva arrivare ad un bel risultato. Giocando con i prodotti che abbiamo, riduciamo anche al minimo lo spreco. Non abbiamo inventato niente, ma riscoperto i prodotti andando più in profondità.
Cos'è cambiato con l'apertura dell'Atelier Moessmer?
A livello dell'organizzazione non è cambiato più di tanto. C'è la squadra, che è rimasta la stessa, c'è la sala, c'è il concetto, la villa è bellissima, e siamo soddisfatti. Certo, con il fatto che la villa è tutelata in quanto bene culturale, abbiamo dovuto adattare il sistema del ristorante alla location. Il concetto si è trasformato nell'aprire le porte di casa: in un clima confortevole e molto reale, dove si può mangiare anche intorno alla cucina.
C'è stata una bella accoglienza da parte del territorio?
Abbiamo tantissime prenotazioni altoatesine, e per noi questo è bellissimo. Poi ovvio, c'è sempre chi non viene per il costo, ed è una scelta che rispetto. L'alta cucina è un'esperienza come altre, e ognuno decide quali fare.
Cambiando argomento. Con l'effetto Masterchef l'alta cucina è entrata nelle case di tutti, come vede questa direzione?
Sicuramente Masterchef e altri programmi hanno avvicinato tantissime persone al mondo della cucina. Poi c'è sempre l'esagerazione legata alla spettacolarizzazione, però credo che dia un bello spaccato, soprattutto ai giovani, di come funzioni questo ambiente, anche in negativo.
Si vede che è un lavoro fisicamente impegnativo. Soprattutto per un giovane: i turni, la fatica, lavorare quando gli altri riposano…
È una scelta. Penso che la cucina talvolta sia come fare uno sport estremo. Di cuochi bravi ce ne sono quanti ne vuoi, per fare la differenza bisogna fare qualcosa in più.
Per concludere, quali sono i suoi prossimi progetti?
Il mio futuro sicuramente sarà la formazione. Mi diverto a stare in cucina, però il mio focus è sui giovani, vedere dove inserirli, come farli crescere. Spero tanto che la prossima generazione dell'alta cucina inizi a lavorare più insieme, senza invidie o battaglie. Con i ragazzi mi sono sempre trovato bene. Oltre quaranta di loro che sono passati da noi sono diventati chef stellati. A pensarci mi viene la pelle d'oca.