Sì, il Covid ha colpito di più chi ha il dna dei Neanderthal: ecco lo studio sulla pandemia in provincia di Bergamo
A Trento il professor Remuzzi del «Mario Negri» di Milano: la correlazione fra genoma delle popolazioni bergamasche e vittime del morbo provata da uno studio sull’«aplotipo» che viene dalla preistoria
TRENTO. Se n’era parlato durante la pandemia, con una ipotesi che gli scienziati stavano ancora approfondendo: nel mondo, alcune fasce di popolazione erano più soggette a contrarre il virus, e si sospettava che il motivo fosse genetico. Tanto da avere un ruolo importante nella pandemia dei comuni bergamaschi all’inizio della stagione del lockdown.
In questi giorni, con una intervista di Paola Siano, il magazine dell’Università di Trento fa parlare il professor Giuseppe Remuzzi, che all’Istituto Mario Negri di Milano ha seguito l’indagine, e che ne ha parlato oggi ad un convegno a Palazzo Consolati, organizzato dal Centro interdipartimentale di Scienze mediche e Fondazione Bruno Kessler.
Che gli uomini e le donne dei Neanderthal fossero nostri fratelli e sorelle estinti è cosa ormai nota. Secondo alcuni studi, negli umani moderni ci sarebbe una percentuale di DNA che varia dall’1 al 4 per cento in comune con questi “parenti” che vissero tra i 200mila e i 30mila anni fa. Ma che ci fosse un legame tra la presenza di questi geni in un individuo e la possibilità di ammalarsi di Covid in maniera più o meno grave è una scoperta recente, fatta dai ricercatori dell’istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano.
«Remuzzi e i colleghi dell'Istituto Mario Negri - dice Olivier Jousson, direttore del Cismed dell’ateneo trentino - hanno messo in evidenza, tramite un cosiddetto studio GWAS (Genome-wide association study) che alcuni tratti genetici, ereditati insieme, e presenti anche nell’uomo di Neanderthal, mostravano una forte associazione con il rischio di sviluppare una forma grave dell’infezione da SARS-CoV-2. Lo studio è rilevante – prosegue Jousson - perché dimostra che, indipendentemente dall'età, dal sesso, dallo stato generale di salute, non siamo tutti uguali nella probabilità di contrarre una malattia infettiva. Questo potrebbe costituire uno strumento di monitoraggio e prevenzione della malattia nelle popolazioni".
Siano ha intervistato il direttore Remuzzi.
Professore, cosa dimostra lo studio e qual è la sua importanza?
«Lo studio, pubblicato sulla rivista iScience, dimostra che una certa regione del genoma umano si associava in modo significativo col rischio di infettarsi di Covid-19 e di ammalarsi in forma grave. Questo tuttavia non spiega perché a Bergamo e provincia più che altrove, ci sia stata una diffusione improvvisa e numericamente importante di casi di Covid. Questa regione risulta essere più importante di tutte le altre per capire perché ci si ammala gravemente. È un "aplotipo di rischio", dicono i medici: “aplotipo” definisce un certo numero di variazioni di geni vicini l’uno all’altro che si ereditano tutti insieme. Questo aplotipo si trova sul cromosoma 3. Comprende geni che contribuiscono alla sintesi di mediatori della risposta immune e altri che presiedono alla funzione di certe cellule degli alveoli polmonari. Fin qui niente di speciale, se non fosse che questo aplotipo arriva a Nembro, Alzano e Albino direttamente dai Neanderthal, dopo essere passato attraverso duemila generazioni almeno. È importante sottolineare, come si legge nell’introduzione di iScience, che “la domanda sul perché il disastro della SARS-Cov-2 abbia travolto la ricca provincia di Bergamo, con i suoi ospedali di alto livello, rimane senza risposta. Molto probabilmente, l'epidemia era di dimensioni tali che qualsiasi sistema sanitario in Europa sarebbe stato sovraccaricato».
Perché si è scelto di fare lo studio sulla popolazione di Bergamo e non un’altra?
«Innanzitutto perché il nostro Istituto si trova proprio a Bergamo e sentivamo quasi il dovere verso la comunità di fornire delle risposte in merito a una eventuale predisposizione genetica nella popolazione bergamasca alle forme di Covid severo. In secondo luogo perché a Bergamo e nelle zone limitrofe c’è stata una esposizione elevatissima e omogenea del virus e quindi rappresentava la base ideale per poter condurre uno studio di questo tipo. Ma se avessimo condotto lo studio in un’altra zona d’Italia i risultati non sarebbero cambiati».
Il fatto che ci siano delle ragioni anche di carattere genetico nello sviluppo di un certo tipo della malattia cosa vuol dire?
«Lo studio ha permesso di vedere quali sono le proteine formate da questi geni e così in futuro potremo agire su queste proteine, e forse studiare le conseguenze della malattia. Tutti aspetti che ovviamente devono essere studiati e dimostrati. Inoltre l’eredità genetica proveniente da Neanderthal potrebbe spiegare anche altre malattie. Non è ovviamente possibile dirlo con certezza, ma i Neanderthal ad esempio avevano un tessuto adiposo molto sviluppato per difendersi dal freddo, e noi abbiamo acquisito la caratteristica di essere predisposti al diabete per questa ragione. Oppure i Neanderthal avevano bisogno che il sangue coagulasse velocemente per rimarginare le ferite che ci si poteva procurare in un ambiente ostile e per questo avevano una genetica orientata in questo senso».
Che scenari si aprono se dovessero esserci altre pandemie e per la cura di patologie virali?
«La frequenza dell’arrivo di altre pandemie, spesso virali, aumenterà̀ probabilmente nel prossimo futuro a causa di una popolazione umana in crescita e sempre più̀ mobile, dell'agricoltura intensiva e dell'uso di antimicrobici, dei cambiamenti climatici, dell'uso inappropriato e della scarsità̀ di acqua, del consumo di prodotti della fauna selvatica, del commercio legale e illegale di animali selvatici e della perdita di biodiversità. Pertanto, la comunità internazionale si trova di fronte a due grandi sfide: sviluppare approcci per ridurre al minimo la trasmissione di nuovi agenti patogeni dagli animali all'uomo e mitigare la vulnerabilità̀ umana alle pandemie in tutto lo spettro microbico. È necessario aggiornare i piani di preparazione tenendo conto dell'esperienza vissuta con il Covid-19, a cominciare dalle pandemie originate da patogeni respiratori. Ciò che è veramente fondamentale è rafforzare i sistemi sanitari nazionali e investire in cure primarie e prevenzione».