Contador, era «il bagnino» è diventato il più amato
Al suo ingresso in un gremito Palazzo Geremia di Trento, Alberto Contador - uno dei sette ciclisti capaci di vincere tutti e tre i grandi giri a tappe - riceve un applauso caloroso. E pensare che la prima volta che arrivò in Italia nel 2008, al Giro, fu battezzato «bagnino» da un caustico Riccardo Riccò. Ora è il corridore più stimato degli ultimi tempi. Ma già allora, dice al cronista della Gazzetta che gli pone le domande, non si era arrabbiato per il nomignolo affibbiatogli. «Era il 2008 - racconta - e per me quella corsa è stata un romanzo, visto che poi ho anche vinto. Ero in vacanza a Cadice quando mi hanno chiamato (da qui il soprannome ‘bagnino’). All’inizio ho detto no perché non mi sentivo preparato, ma il direttore del team ha insistito e così sono arrivato in Italia».
Alberto ha poi confessato la sua passione per le salite italiane: «Sono le migliori perché sono ripide: lì i treni delle squadre contano poco, tutto sta al corridore. Se sulle erte non hai la gamba non vai. La più dura in assoluto? Direi lo Zoncolan».
La prima bicicletta di Contador era «una specie di moto per bambini, coi pedali. Poi ho sempre avuto biciclettine fino a quando mio fratello ha finito la maturità. In quell’occasione a lui hanno comprato una bicicletta vera ed io ho ereditato la sua vecchia, che non era male».
Così addio calcio e atletica. «Mi piacevano molto, ma subito sono stato attratto dal ciclismo per il senso di libertà che offre la bici. E poi c’era mio fratello che lo praticava, lui era il mio idolo».
Anche se, aggiunge, l’idolo sportivo era Marco Pantani. «La prima volta che ho gareggiato con lui mi sono presentato gli ho detto di essere onorato di poter correre con lui. Penso anche che sia stato lui a ispirare il mio stile di corsa».
La carriera però ha rischiato di interrompersi presto: un ictus lo ha colto a ventuno anni, durante la Vuelta Asturia, mentre preparava il Tour. Era il periodo della Liberty Seguros. «Avevo sempre male di testa molto forte mentre preparavo il Tour. Alla Vuelta Asturia caddi e quando fui all’ospedale mi trovarono sangue nella testa ma ancora non sapevano se era per la caduta o se riguardava una questione precedente. Mi mandarono a casa dopo 10 giorni ma ebbi delle ricadute. Mio padre mi riportò all’ospedale con metà corpo immobilizzato. Potevo anche rimanere paralizzato ma sapevo che in quel momento contava di più la mia vita. Firmai i consensi per l’operazione e le cose andarono bene».
Alla Liberty fu compagno di squadra di Michele Scarponi «un ragazzo che ricordo con affetto. Era capace di rallegrare tutto l’ambiente, anche quando e cose andavano male. Ad una cena, dopo una brutta gara, lui scese dalla sua stanza e iniziò a scherzare, tirando tutti su di morale».
Contador racconta anche che al suo paese sapevano che correva in bici, ma spesso gli chiedevano «d’accordo, ma che lavoro fai per vivere?». Fu solo nel 2007 che lo capirono con certezza. «Ero al Tour de France e stavo lottando per la vittoria. In un giorno di riposo alla tv vidi le immagini del paese in festa per la mia prestazione. Da allora non mi hanno più fatto quella maledetta domanda».
Nel 2008, poi, la vittoria al Giro d’Italia ed era l’anno delle Olimpiadi di Pechino. «Non volevo andarci perché il mio obiettivo era la Vuelta. Poi ci sono state pressioni politiche e ho dovuto partecipare ma la testa l’avevo sempre alla Vuelta perché sapevo che se fossi riuscito a vincere tutti e tre i grandi giri prima dei 25 anni sarei entrato nella storia». È andata così.
Lo spagnolo ha poi raccontato della sua rivalità con Lance Armstrong: «Nel 2009, entrambi correvamo per l’Astana ed entrambi volevamo vincere il Tour. Fu una situazione al limite: qualsiasi cosa succedesse, lui faceva un tweet: voleva scatenare una guerra psicologica. Diciamo che quella volta la stampa ha raccontato molto meno di quanto avrebbe potuto».