Diego Mosna: «Uno scudetto per festeggiare i 20 anni»
Diego Mosna è dal 2000, cioè da sempre, il presidente e l’anima della Trentino Volley. Presidente, azionista, sponsor e tifoso, Mosna si appresta a vivere una stagione speciale visto che celebrerà i vent’anni di attività. Vent’anni alla guida di una squadra capace di vincere quattro scudetti, tre champions league, cinque mondiali per club, una coppa cev, tre coppe Italia e due supercoppe. Diciotto titoli che saranno il leit motiv della festa di venerdì sera, al palazzetto di Trento sulle note dei The Kolors. A pochi giorni dall’esordio in Superlega della squadra, il presidente della Trentino Volley Diego Mosna è venuto alla sede dell’Adige per raccontare come si avvicina a questa nuova stagione.
«Ricordo ancora la prima partita che giocammo a Trento in Serie A1. Era il 22 ottobre 2000 quando affrontammo Padova e vincemmo 3-2» ricorda Mosna. Che poi aggiunge: «Ironia della sorte, l’allenatore di Padova, allora, era Angelo Lorenzetti, il nostro tecnico attuale».
Presidente Mosna, come le è venuta l’idea di acquisire i diritti della serie A1?
«Ero già sponsor e socio del Mezzolombardo in A2. C’erano 500-1000 persone che venivano a vedere la squadra ma la proprietaria aveva deciso di chiudere, così con alcuni soci tra cui Edo Benedetti, patron di Itas Assicurazioni, pensammo di proseguire. Anzi, rilanciammo pensando che probabilmente era il momento di tentare il grande salto, in serie A1. La scommessa era quella di portare il grande pubblico al palazzetto, cambiando così gli usi dei trentini che erano abituati ad avere campioni sportivi, ma più che altro erano ciclisti e sciatori. Molti capoluoghi di provincia avevano una squadra alla quale appassionarsi, mentre noi non ce l’avevamo anche se Trento, una città ricca e sportiva, era senz’altro matura per la squadra di vertice. Andò bene».
La stagione 2000-2001, la prima in A1, fu anche la stagione dell’inaugurazione del Palazzetto di Trento...
«Mi pare che fosse costato 54 miliardi delle vecchie lire. Lo inaugurammo proprio in quella partita del 22 ottobre, col sindaco Alberto Pacher. Allora la capienza era di poco superiore alle duemila persone e lo riempimmo. Il fatto poi di vincere al tiebreak la prima partita in casa fu un volano importantissimo».
Si dice che lei il primo anno aveva il terrore di retrocedere.
«È vero. Retrocedere sarebbe stato un fallimento del progetto perché tutto era studiato per rimanere nella massima serie. Fortunatamente riuscimmo a salvarci, prendemmo confidenza con la massima categoria. E oggi siamo ancora qui».
Una “visione” che ha dato vita all’epopea e che ha lanciato Trento nel firmamento delle città sportive.
«Certo, come dicevo l’idea era sempre stata che Trento attendesse solo che qualcuno si buttasse per offrire il proprio appoggio. Come poi si è visto, è seguito anche l’esempio del basket che ora è di primissimo piano. Sono tuttavia convinto che in quel periodo sarebbe stata la stessa cosa anche se si fosse investito nel calcio: la città attendeva solo una squadra di vertice. Anche se penso che presto il lavoro che sta facendo il presidente Giacca darà i suoi frutti. E se arriverà in serie A1 anche la Trentino Rosa in città ci saranno moltissime proposte sportive di primo piano».
Secondo lei è più difficile raccogliere sponsor in Trentino rispetto alle altre zone d’Italia?
«Non credo. Penso che sia un po’ la stessa cosa dappertutto. È chiaro che il nostro territorio è meno popolato e dunque ci sono meno aziende rispetto al Veneto, la Lombardia, l’Emilia. Noi abbiamo avuto la fortuna all’inizio di avere avuto la mia azienda ma soprattutto Itas che è stata una compagna di viaggio importantissima economicamente e ci ha permesso di pianificare il lavoro con tranquillità e lungimiranza. Da questo punto di vista, io credo poco nell’azionariato diffuso perché nella storia di una società sportiva arriva sempre il momento in cui le cose non vanno benissimo e bisogna metterci dei soldi. In quel caso non puoi andarli a chiedere a cento persone perché sarebbe complicato. Meglio avere sponsor robusti che credano nel progetto e siano disposte a fare contratti pluriennali».
Quando ha capito che Trento poteva diventare una squadra fortissima?
«Già dopo il primo anno, ottenuta la salvezza, abbiamo preso le misure con la nuova categoria e, soprattutto, abbiamo capito di avere il pubblico dalla nostra parte. Un pubblico che poi ci ha accompagnato per molti anni e che si è rivelato essere una risorsa. Avere uno zoccolo duro che ti segue con costanza è come avere uno sponsor in più e da questo punto di vista noi siamo stati sempre fortunati, facendo cifre importanti. Così già dal secondo anno abbiamo allestito una squadra più robusta e da quel momento è stata una progressione continua: ci siamo creati una reputazione, l’ambiente favorevole».
Avete anche scalfito il cliché che descrive Trento come una città fredda...
«Abbiamo dimostrato di avere sostenitori caldi ed educati che per diverse stagioni hanno vinto il titolo di miglior pubblico. Anche per gli avversari Trento è sempre stata una città accogliente, dove si veniva e si stava bene. Già allora eravamo una piazza simpatica. E tutto questo ci ha dato sempre maggior forza, credibilità e fiducia».
In più c’era la conoscenza della macchina-volley che migliorava di anno in anno. Quali sono stati i passaggi fondamentali nell’irrobustimento della società?
«Dopo la salvezza, l’altra stagione decisiva fu quella in cui vincemmo la regular season. Era il 2003-2004, l’anno in cui giocava Lorenzo Bernardi e l’allenatore era Silvano Prandi. Dopo aver dominato la stagione regolare perdemmo ai quarti di finale contro Perugia a causa di una serie di infortuni. Lì capimmo che dovevamo porre molta più attenzione anche alla preparazione atletica dei giocatori. E tuttavia non fu semplice risolvere il problema perché in loco ci sono pochi specialisti e per trovare preparatori atletici e fisioterapisti ci siamo dovuti rivolgere a professionisti fuori dal Trentino. Poi ci fu il 2007-2008, l’anno dello scudetto. Scommettemmo su Radostin Stoytchev - che era vice allenatore della Dinamo Mosca - e su un giovanissimo Matey Kaziyski di cui si parlava bene ma che nemmeno noi pensavamo potesse essere così forte».
Quali sono i giocatori che le rimangono più impressi di questi vent’anni di volley?
«Il primo che mi viene in mente è Giombini. Credo che se il primo anno ci siamo salvati gran parte del merito lo abbia lui. Poi direi Kaziyski e Juantorena: la coppia di attaccanti più forte che ci sia stata in Italia e forse al mondo. Con quella coppia in campo abbiamo vinto trofei a profusione. C’è anche Giannelli che, a dispetto della sua giovane età, è già maturo sia come atleta che come uomo. Già, penso che Giannelli sia un vero fenomeno».
A proposito di trofei, quali sono le vittorie più significative che avete ottenuto?
«Penso alla prima Champions League conquistata a Praga contro l’Iraklis di Salonicco in un palazzetto con seimila tifosi greci scalmanati. Ma anche la Champions League che abbiamo vinto a Bolzano. Di quella oltre il valore sportivo ricordo con affetto anche quello organizzativo. Riuscimmo a coinvolgere nella macchina anche la provincia di Bolzano e il sindaco Spagnolli con cui trovammo una grande sintonia».
E dei suoi collaboratori? Senza far torto a nessuno, se la sentirebbe di citarne uno?
«Credo che la grande esperienza che ha portato in società Bruno Da Re sia un valore aggiunto inestimabile».
È opinione diffusa che l’invenzione del V-Day - la finale scudetto in gara unica - vi abbia privati di altri scudetti. Cosa pensa?
«Non so. In quel periodo ero presidente di Lega e cercavamo soluzioni per alleggerire un calendario pressante. Così abbiamo pensato di creare un evento che potesse dare lustro al nostro sport. E in questo siamo senz’altro riusciti nell’intento: il V-Day era seguito in tutto il mondo».
Oggi Trentino Volley ha rafforzato ulteriormente il suo legame col territorio attraverso la collaborazione con l’Università di Trento che sponsorizza la squadra di A3. Un nuovo orizzonte?
«La nostra è una squadra giovanissima, con otto ragazzi iscritti all’Università di Trento e sei alle scuole superiori. Come società siamo sempre stati convinti dell’importanza dell’istruzione e della scuola ma ora abbiamo fatto un passo ulteriore, imponendo agli atleti anche un rendimento minimo. Dal canto loro, i ragazzi possono vivere la vita universitaria e così essere più integrati nel tessuto cittadino. Abbiamo la speranza di costruire un modello che possa essere seguito anche da altre città, riproducendo alla lunga il modello dei college americani».
Cosa si aspetta da questa stagione così speciale, visto che celebrerà il ventennale?
«Sogno una vittoria importante».
Ne ha parlato con i ragazzi?
«Non ancora. Dovrò spiegare loro che hanno una grande fortuna ad essere qui proprio in occasione di questa ricorrenza. E mi auguro che loro possano esaudire il mio sogno».