I giocatori dell’Aquila Basket in carcere per portare felicità attraverso lo sport
Marco Crespi, direttore dell’Academy, ha tenuto dodici sedute di allenamento a Spini di Gardolo. Mattia Udom: «Il sorriso dei detenuti con la palla in mano mi ha contagiato e ricordato che la pallacanestro è gioco e divertimento»
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TRENTO. «Vedere il sorriso e la felicità di quei ragazzi con la palla in mano mi ha fatto ricordare che il basket alla fine è gioco e divertimento. Per noi professionisti talvolta diventa solo un lavoro che, in caso di brutte sconfitte o infortuni, porta negatività. Loro invece avevano sempre il sorriso stampato in volto. Il loro amore genuino per la pallacanestro e la loro gioia mi hanno contagiato. Nella mia vita, grazie al basket, ho vissuto molte esperienze extra-sportive ma questa è di certo la più particolare, la più bella». Mattia Udom non è solo un giocatore della Dolomiti Energia Trentino. È un uomo intelligente dall'animo sensibile.
Così, dopo la sorpresa iniziale, ha accettato volentieri la proposta di affiancare Marco Crespi per il progetto One Team voluto dal presidente Luigi Longhi e organizzato da Massimo Komatz e Stefano Trainotti. Tutte le squadre di Eurolega ed Eurocup devono promuovere un progetto con ricadute sul sociale. Fra i molti organizzati, per One Team Aquila Basket ha scelto di ritornare in carcere dopo la prima esperienza del 2019/20.
Così tra novembre e febbraio, per dodici lunedì, il direttore dell'Academy Marco Crespi è andato a Spini di Gardolo per insegnare basket a dodici detenuti. E in due occasioni è stato affiancato, in qualità di assistant coach d'eccezione, da Udom. Di più: durante una seduta è arrivata nella palestrina anche la direttrice della casa circondariale di Spini di Gardolo Annarita Nuzzaci che pure si è messa in gioco provando a fare canestro.
«È stata una situazione forte dal punto di vista umano - racconta Crespi - in carcere non c'ero mai stato. Ma una volta in palestra, un grande stanzone con un canestro appeso al muro, tutte le preoccupazioni svanivano. Al punto che sotto Natale, quando gli allenamenti sono stati sospesi, quell'appuntamento mi mancava. Si è creato un bel rapporto in cui loro hanno ricevuto qualcosa e ci hanno però restituito molto».
«Lo si vedeva all'inizio di ogni seduta quando, appena arrivati dai vari settori della casa circondariale, i ragazzi ci salutavano calorosamente, abbracciandoci forte. Si è creato un rapporto stretto al punto che spesso, pur non chiedendo nulla, venivano a raccontarmi perché si trovano in carcere, quale errore avevano commesso. Siamo stati un contatto terzo con il mondo esterno: i detenuti vedono soltanto i giudici, gli avvocati e i parenti, persone che stanno da una parte o dall'altra, noi eravamo qualcosa di diverso, ciò di cui loro hanno tanto bisogno. E così talvolta arrivava un giocatore in più, un compagno di cella portato da chi era già stato con noi».
Ma cosa ha colpito di più un allenatore che ha frequentato i campi di tutta Europa? «Da una parte la grande attenzione e disciplina con cui seguivano i dettagli tecnici insegnati e dall'altra il massimo rispetto dell'avversario nei contatti fisici. E il sostegno che ognuno di loro garantiva all'altro: è stato bello vedere l'esultanza di tutti quando un loro compagno, non particolarmente portato per il basket, è riuscito a segnare due canestri durante una partitella tre contro tre. Non a caso quando ho raccontato a mia figlia di 22 anni cosa andavo a fare in carcere, mi ha detto "che figo". È una fotografia che mi porterò dentro».
E cosa può dare il basket ai detenuti? «Innanzitutto il fatto di potersi muovere, di avere un attrezzo in mano, in questo caso il pallone, e di doverlo controllare, di poter collaborare per raggiungere un risultato e poi la sfida, con il canestro per riuscire a segnare e con l'avversario per vincere le partitelle uno contro uno o due contro due».
«Abbiamo dato loro una speranza - sottolinea Udom - per i detenuti è davvero importante sapere che ci sono persone esterne pronte a interagire con loro all'interno del carcere. Vista la loro età, quando usciranno di prigione non potranno avere un futuro nel basket, ma avranno la possibilità di inserirsi in qualche squadra di prima divisione per giocare a livello amatoriale. Possono sperare di migliorarsi come persone e come sportivi. Ed è giusto che abbiano un'opportunità: chi sta in carcere è circondato da un alone di negatività e invece è soltanto una persona che ha sbagliato ma deve avere la possibilità di riscattarsi».
Per Mattia le visite in carcere hanno avuto un altro risvolto dal punto di vista emotivo: «Un giorno c'erano in palestra tre nigeriani ed è stato emozionante vedere come mi hanno accolto. Mio padre è nigeriano e così, anche se non ci conoscevamo, abbiamo subito legato. Mi hanno dato dei consigli che ho apprezzato perché ho sempre appreso qualcosa di importante dal popolo cui appartiene anche mio papà».
Ma l'Aquila Basket tornerà a far visita a Spini di Gardolo? «Io ci conto - conclude Crespi - mi piacerebbe coinvolgere anche le donne. Mi hanno spiegato che sono poche, ma non importa, anche fossero due sole. E spero di trovare un altro canestro nella palestrina che ci ha accolto. Alla direttrice l'ho detto: "Mi raccomando, sul campo di basket i canestri sono due"».