Il patron di Huawei: «Non spiamo l'Occidente con i telefonini»
Ren Zhengfei, fondatore di Huawei, respinge i sospetti: il colosso delle tlc non è al servizio del governo di Pechino nelle attività di spionaggio.
In un rarissimo incontro coi media stranieri, nel quartier generale di Shenzhen, Ren ha detto che sua figlia e direttore finanziario della compagnia, Meng Wanzhou, arrestata in Canada a dicembre, dovrebbe essere liberata ammettendo di sentirne «la mancanza». Huawei «non ha mai ricevuto alcuna richiesta da alcun governo di fornire informazioni improprie», ha inoltre rilevato, assicurando che «non l’avrebbe» comunque accettata. «Non ci sono backdoor (le “porte d’accesso per catturare i segreti”, ndr) nelle nostre attrezzature e nei nostri sistemi».
«Amo ancora il mio Paese, sostengo il Partito comunista, ma non farei mai alcuna azione che possa danneggiare alcun Paese», ha spiegato poi l’ex ingegnere militare di 74 anni, di cui si conoscono pochissimi contatti diretti coi media. Se ne contano tre, in via ufficiosa, di cui l’ultimo nel 2015: quello di oggi è un evento eccezionale dovuto a fattori delicati tra accuse alla «sua» azienda di essere il braccio armato di Pechino (dalla leadership hi-tech, a partire dalla corsa globale allo standard 5G, fino allo spionaggio) e al rischio di estradizione negli Usa pendente su sua figlia, accusata d’attività illecite con l’Iran.
È la ragione alla base del duro scontro diplomatico salito a nuovi livelli tra Cina e Canada, finito come terzo incomodo nello scontro a tutto campo tra Pechino e Washington.
Ren, a sorpresa, ha avuto parole di apprezzamento per Donald Trump, ritenendolo «un grande presidente» degli Stati Uniti e lodandone il robusto taglio fiscale a sostegno del business. «Il messaggio che voglio comunicare agli Usa è: collaboriamo e condividiamo il successo. Nel nostro mondo, quello dell’alta tecnologia, è sempre più impossibile per ogni singola compagnia o Paese sostenere e supportare i bisogni del mondo».
L’ultima grave grana di Huawei è appena venuta dalla Polonia: l’arresto per spionaggio di un suo funzionario, poi licenziato prendendo le distanze dal suo operato. Dopo il boicottaggio Usa deciso da Trump ad agosto, altri Paesi hanno seguito l’esempio, tra cui Australia, Nuova Zelanda, Giappone, escludendo la compagnia dalle infrastrutture di 5G. Altri alleati, come Gran Bretagna, Germania, Francia e Belgio, sono propensi a farlo, così come la Norvegia che sta esaminando il dossier.
La Cina ha rispedito al mittente l’accusa del premier Justin Trudeau di aver condannato «arbitrariamente» a morte Robert Lloyd Schellenberg, connazionale di 36 anni, ritenuto colpevole di traffico di droga (oltre 222 chili di metamorfine), esprimendo «forte insoddisfazione» e sorpresa per un rilievo contrario allo «spirito di base dello stato di diritto».
Considerando gli arresti per le minacce alla sicurezza nazionale di due canadesi (l’ex diplomatico Michael Kovrig e l’imprenditore Michael Spavor), Ottawa ha lanciato l’allerta per i concittadini in visita in Cina per il rischio ritorsioni. Una mossa replicata da Pechino per chi si vuole recare in Canada.
«Ci concentreremo sui Paesi che vogliono la nostra tecnologia 5G e nel 2019 il fatturato globale salirà da 100 a 125 miliardi di dollari», ha concluso Ren. Che non si è tirato indietro alla richiesta di informazioni sugli assetti proprietari del gruppo, sospettato di legami mai recisi coi militari. Il fondatore ha l’1,14% del capitale, la cui gran parte è nel possesso dei dipendenti di Huawei.