Terremoto nel Pd, Cuperlo si dimette
Le uniche dimissioni che fanno sorridere tutto il Pd sono quelle di Pier Luigi Bersani, che ha lasciato ieri l'ospedale di Parma. Ma tra i dem si respira un'aria pesante: l'ultimo colpo all'unità del partito arriva dalla decisione di Gianni Cuperlo di lasciare la presidenza del partito, colpito dagli «attacchi personali» ricevuti l'altro giorno da Matteo Renzi e «allarmato» da una concezione «omologata» di partito
Le uniche dimissioni che fanno sorridere tutto il Pd sono quelle di Pier Luigi Bersani, che ha lasciato ieri l'ospedale di Parma. Ma tra i dem si respira un'aria pesante: l'ultimo colpo all'unità del partito arriva dalla decisione di Gianni Cuperlo di lasciare la presidenza del partito, colpito dagli «attacchi personali» ricevuti l'altro giorno da Matteo Renzi e «allarmato» da una concezione «omologata» di partito. Ma il rottamatore lascia poco spazio al rimpianto: accetta le dimissioni, convinto che «le critiche si fanno e si ricevono». E considera intoccabile l'intesa sulla legge elettorale, un castello che, se tocchi un mattone, «crolla tutto».
Mentre il rottamatore corre come un treno e, dopo il dossier riforme, torna ad incalzare il governo «a questo punto senza più alibi», la minoranza, anche divisa al suo interno, non riesce ad rialzare la testa dopo la sconfitta congressuale. Dopo Stefano Fassina, un'altra frecciata di Matteo Renzi spinge alle dimissioni Gianni Cuperlo, che, dopo molti tentennamenti, aveva accettato la carica di presidente dell'assemblea Pd. L'attacco di difendere le preferenze pur non avendo neanche corso alle primarie non va giù all'ex Ds. «Hai risposto - scrive Cuperlo nella lunga lettera di dimissioni - a delle obiezioni politiche e di merito con un attacco di tipo personale». Ma non è il rancore a spingere l'ex rivale del rottamatore a lasciare la carica di garanzia del partito: «Mi dimetto perché voglio avere la libertà di dire sempre quello che penso».
Ma è l'idea, tutta nuova per il Pd, di un partito del leader a scuotere la minoranza bersaniana e dalemiana, chiamata a suo avviso solo a ratificare l'altro giorno, in direzione, l'accordo elettorale tra Renzi e Berlusconi. Il segretario nega, però, che il Pd «sia un partito di plastica» e rivendica «una discussione a viso aperto». Ma non ha alcuna intenzione di cambiare verso: si può discutere, anche offendersi a vicenda, «a me - ricorda - mi hanno dato del fascistoide» ma poi, una volta che la direzione ha votato, il dado è tratto e tutti devono accodarsi.
Un decisionismo che non tutta la minoranza applaude: Stefano Fassina gli riconosce «un ottimo lavoro» nell'aver raggiunto un'intesa e, come l'ex viceministro, i «giovani turchi» escludono la presentazione di emendamenti di corrente. I bersaniani, invece, si preparano alla guerra in Parlamento per correggere la legge elettorale. Idee opposte su come fare opposizione alla maggioranza, anche se, al momento, tutti escludono una scissione. Il segretario non ammette, però, di riaprire dentro il partito una decisione già presa: «In Parlamento si possono fare cambiamenti ma nel Pd si fa quello che ha deciso la direzione».
Ci mancherebbe altro, incalza Renzi, che «adesso si blocca tutto per le dinamiche di corrente». L'unica concessione che il segretario può fare agli equilibri interni è tornare ad offrire alla minoranza, dopo le dimissioni di Cuperlo, la presidenza. E rispedire la palla in campo avverso visto che, a sinistra, c'è chi, come i «giovani turchi», accetterebbe il ruolo (si parla del ministro Andrea Orlando) in nome di una pax interna. E chi, invece, punta a un'opposizione dura e pura che, non avendo ruoli, non faccia sconti al leader.