Charlie Hebdo, i redattori sopravvissuti tornano al lavoro
«È stato un trauma enorme, soprattutto per quelli che erano sul posto. Ma cerchiamo di lasciarcelo alle spalle, andiamo avanti. Non hanno ucciso Charlie».
Tristezza e determinazione si mescolano negli sguardi dei redattori di Charlie Hebdo, tornati oggi al lavoro in una grande sala offerta dalla sede del quotidiano Liberation.
«La cosa più importante per noi è che mercoledì i nostri lettori, e tutti quelli che volessero comprarlo, troveranno in edicola il giornale, lo stesso che hanno sempre trovato», racconta all’agenzia Ansa Richard Malka, avvocato di fiducia del magazine satirico trasformatosi in coordinatore e portavoce improvvisato. «Non sarà - spiega ancora - un necrologio, non sarà un omaggio, sarà un giornale normale, lo stesso di tutte le settimane. Con i disegnatori, le rubriche, tutto, tutto agli stessi posti. E anche gli scomparsi ci saranno, ancora con noi».
Il pensiero per le vittime è costante, aleggia sopra la redazione ricomposta come una nuvola pesante. Mischiata alla preoccupazione per i feriti, che vogliono sentire il più vicino possibile. Le conversazioni sulle visite in ospedale si mescolano a quelle sul lavoro di redazione, sulle pagine, sui testi da pubblicare, intrecciate nella speranza che chi è stato colpito possa riprendere il più presto possibile. «Chiedetegli se ce la fa a fare un disegno, se vuole. Anche uno scarabocchio, fatto con la mano sinistra, una mucca...», dice un redattore a una collega, parlando di uno dei disegnatori ancora ricoverato in ospedale. «Minaccialo, digli che se non lo fa perde il posto in pagina», scherza un altro. Ma il sorriso è amaro.
Intorno a loro, il dispiegamento di sicurezza è ancora imponente. Il portone principale della sede di Liberation che li ospita è sprangato, per raggiungerli bisogna passare da una porticina che dà sul garage. Davanti, uno schieramento di poliziotti con giubbotti antiproiettile, e due funzionari che controllano chiunque voglia entrare. I redattori del quotidiano, però, sopportano con pazienza, desiderosi di supportare i colleghi. «Abbiamo sempre detto che quelli di Charlie sono un pò i nostri cugini - dice uno di loro in un corridoio - ovviamente ci siamo sentiti coinvolti».
Liberation non è l’unica ad aver offerto aiuto: «Ironicamente - racconta ancora Richard Malka - ora abbiamo dei mezzi che non abbiamo mai avuto. Ci è stato offerto aiuto da tutto quello che c’è a Parigi come editori di giornali, radio, tv, possiamo avere i locali che vogliamo, gli strumenti che vogliamo. Quello che lascia l’amaro in bocca, però, è che tutta questa solidarietà arrivi in ritardo».
Nessuna accusa di ipocrisia, tiene a precisare, solo questo senso di amarezza che non si riesce a cancellare: «Quello che vorrei è che nessuno ci definisse più dei laici integralisti. Che nessuno usasse più la stessa parola per definire gli assassini e le vittime. Oggi c’è unanimità, siamo sostenuti da tutti, ma ci sarebbe piaciuto che fosse stato lo stesso negli ultimi 20 anni».
Chiara Rancati