Renzi e l'emergenza Mezzogiorno «Adesso basta piagnistei»
Se gli italiani amassero il Bel Paese come i giapponesi, «torneremmo prima ad essere un punto di riferimento nel mondo». Matteo Renzi sbarca in Giappone ed esporta dati di crescita e ottimismo. Non può ignorare i mali di Roma, ma «i sindaci - dice - lavoreranno di più nei prossimi mesi». Non vuole però far suo l'ennesimo grido di allarme sul Sud: «Rimbocchiamoci le maniche ma basta piagnistei».
Pur accorciando la missione per tornare a Roma dove «mercoledì o al massimo giovedì approveremo la riforma della Pubblica amministrazione», il premier non ha voluto mancare all'invito del primo ministro giapponese Shinzo Abe, con cui nell'ultimo anno ha creato un feeling politico e umano. «Anche lui sta approvando la riforma costituzionale - racconta Renzi - è più fortunato perché deve fare solo due passaggi alle Camere ma anche noi andremo fino in fondo e faremo il referendum».
Ma al di là della cortesia istituzionale, è il mercato nipponico a portare Renzi a 10.000 chilometri dall'Italia nonostante le tensioni politiche. «L'export è cresciuto del 4,1% ma dobbiamo sottolineare con forza il valore del Made in Italy», dice davanti alla comunità italiana con rappresentanti di imprese italiane. Con le nuove regole sulla sicurezza, inoltre, il premier italiano spinge per un ingresso importante di Finmeccanica nel Paese del Sol levante.
Ma è il 30% in più di investimenti stranieri in Italia a far dire al presidente del Consiglio che «l'Italia è ripartita». Insomma il messaggio per l'estero ma ancora più per l'Italia è «basta con la rassegnazione e basta piangersi addosso». L'invito a «rimboccarci le maniche» deve valere per tutti. Citando i 2,7 milioni di turisti giapponesi in Italia invita a «mettere di più a posto le nostre città» convinto che «i sindaci lavoreranno di più nei prossimi mesi». È la mentalità giusta, l'entusiasmo, quello che per il premier conta. Per questo rispetto alla questione meridionale, tra dati Svimez e la denuncia di Roberto Saviano, il presidente del Consiglio sprona a mettersi al lavoro e a smettere di piangersi addosso.
Comunque i problemi arrivano proprio sulle riforme. Ancora non sono stati presentati gli emendamenti al testo, manca più di un mese all'inizio delle votazioni in commissione, ma lo scontro nel Pd sulle riforme è già guerra aperta. «Pretoriani» contro «congiurati». La maggioranza accusa la minoranza di volere un «Vietnam» parlamentare per fermare il percorso di cambiamento e abbattere il governo, con l'obiettivo di «tornare al passato». La minoranza accusa i renziani di «cercare lo scontro» per evitare di confrontarsi nel merito. Chiusi i canali di dialogo.
«Andremo fino in fondo e faremo il referendum in cui i cittadini diranno sì o no alla riforma del Senato», dice Renzi da Tokyo. Non aggiunge altro. Ma fonti parlamentari raccontano che di primo mattino, all'arrivo in Giappone, il premier sarebbe stato molto contrariato dal leggere un articolo su La Repubblica in cui senatori della minoranza annunciavano battaglia sugli emendamenti anche a costo di far «ripartire da zero» la riforma.
Perché bloccare il ddl costituzionale, denunciano per tutto il giorno i renziani, vorrebbe dire bloccare il cambiamento. Dunque annunciare un «Vietnam» in Senato «non è guerriglia - attacca a muso duro Francesca Puglisi - ma la patetica dimostrazione dell'incapacità della minoranza di essere riformista».
«Paventano una imboscata», accusa Ernesto Carbone, senatori come Miguel Gotor che «con doppia morale» si è fatto eleggere «in un listino bloccato». Alzano i toni, insomma, i renziani. E attacca anche il presidente del partito, Matteo Orfini: «È incredibile che alcuni senatori minaccino il Vietnam contro il nostro governo». Ma quelle accuse, ribattono dalla minoranza, sono il segnale che si sta seguendo «una china politicamente pericolosa»: «I soliti pretoriani dell'obbedire - scandiscono Vannino Chiti e Maurizio Migliavacca - si inventano congiure, trappole, agguati. Ma lealtà non è fedeltà acritica: su questo non siamo disposti ad accettare lezioni». Con una chiarezza di fondo, spiegano i renziani: «Se salta la riforma, finisce la legislatura».