Pd, Bersani replica agli attacchi della Leopolda: «Miserie umane»
«Fuori, fuori». Dopo i fischi, sabato, a Massimo D’Alema, ierii il boato alla cacciata della minoranza Pd esplode dalla platea della Leopolda quando Matteo Renzi chiama alle armi in un affondo contro «i teorici della ditta quando ci sono loro e dell’anarchia quando ci sono gli altri».
Il premier non frena i pasdaran, «non urlate ma votate e fate votare» dirà più tardi, ma ormai lo spettro della scissione torna ad aleggiare.
Ma la sinistra dem, ancora più isolata dopo il sì di Gianni Cuperlo al documento sull’Italicum, non ha alcuna intenzione di farsi cacciare: Pier Luigi Bersani ribadisce ai suoi che devono andarlo a «prendere con l’esercito» per lasciare il Pd a rischio rottura, secondo i bersaniani, proprio per la mancata volontà unitaria del leader.
«Il partito è casa mia e non lo lascerò mai. Ieri, ho ascoltato qualcosa che nel Pd non avevo mai sentito», ha aggiunto Bersani riferendosi a quando avvenuto alla Leopolda.
«Il Pd - ha detto - è stato sempre concepito come un partito plurale dove la gente ragiona con la propria testa dove si cerca la sintesi, a volte anche faticosa, ma si rappresenta una pluralità di pensiero e di sensibilità».
Bersani stamattina ha commentato anche le indiscrezioni riportate dalla stampa secondo cui in caso di vittoria del no il Pd metterebbe fuori dalle liste elettorali gli esponenti della minoranza dissidenti da Renzi: «Che miseria umana».
Bersani poi attacca la segreteria anche in forza di nuove sconfitte elettorali nei comuni: «A Monfalcone, una roccaforte rossa, prendiamo una botta, veniamo doppiati da una leghista perché abbiamo avuto il 10% in meno di votanti e credo di sapere chi sono. Io non c’ho dormito stanotte, loro invece chiudono gli occhi e urlano “fuori fuori”. Risparmiate il fiato.
Questa storia che il Pd fa tutto da solo si sta dimostrando debole, abbiamo perso tutti i ballottaggi. Bisogna costruire un area ulivista di centrosinistra, il Pd deve essere una infrastruttura non può essere il pigliatutto con la logica de comando.
Provo grande amarezza, perché vedo un partito che sta camminando largamente su due gambe: arroganza e sudditanza. E così non si va da nessuna parte.
Ci vuole libertà, responsabilità, autonomia, democrazia, schiena dritta. Non arroganza e non sudditanza. Non mi interessano i tifosi leopoldini che urlano “fuori, fuori, fuori”, ma tutti gli altri che stanno zitti. Questo non va bene. Sono abituato a una politica diversa. Io non voglio niente - aggiunge rispondendo a Renzi secondo cui l’obiettivo di chi voterà no al referendum è ritornare al governo - vorrei poter dire la mia finché è consentito parlare».
Infine, Bersani guarda al prossimo congresso: «Porrò il problema della separazione della leadership del partito con la guida del governo».
Insomma, se la Leopolda doveva rilanciare il fronte del sì e rafforzare il premier, al momento le acque sembrano particolarmente agitate e il nervosismo è più che evidente.
A 28 giorni dal referendum, con sondaggi difficili, per Renzi il merito della riforma passa in secondo piano.
«Più che il bicameralismo paritario si tratta di superare l’atteggiamento rinunciatario di chi ci dice ciò che dobbiamo fare e cosa», carica il premier che, nella kermesse che l’ha lanciato sulla ribalta nazionale, torna ai toni del rottamatore.
Il 4 dicembre, nella volata finale che il leader Pd ha intenzione di fare girando in lungo e in largo l’Italia, diventa una scelta di campo «non tra due Italie, che è una e indivisibile, ma tra due gruppi dirigenti»: chi ha proposte e guarda al futuro e i «gattopardi» che frenano dopo aver fallito per 30 anni e che «se li chiudi in una stanza per avere un’idea non ne escono più».
Musica per le orecchie dei leopoldini, i più renziani dei renziani, gente che prima di scegliere il Pd ha scelto, 7 anni fa, Matteo Renzi. E che non solo oggi, spingendo fuori dal partito la sinistra di Bersani e D’Alema, è capace di andare oltre le intenzioni del leader: quando Renzi perse le primarie per la premiership nella kermesse fiorentina non erano in pochi a pensare che sarebbe stato meglio fare un partito nuovo e candidare il giovane fiorentino alle elezioni. Non andò così come ora il principale obiettivo del leader dem è vincere il referendum. I conti, sostengono i fedelissimi, si faranno al congresso dove Renzi sembra avere intenzione di candidarsi comunque.
Non è invece un uomo da «governicchi tecnici» l’ex sindaco di Firenze come lascia intendere oggi contrapponendo eventuali scenari per il 2017. Scenari che la minoranza allontana, ripetendo che in ogni caso Renzi deve andare avanti.
«Non credo che la stabilità del nostro Paese sia in questione», dice oggi da Tel Aviv Massimo D’Alema.
Anche per Bersani il premier deve andare avanti comunque al governo mentre dovrebbe lasciare la guida del Pd.
«Che il segretario di un partito - sostiene Miguel Gotor - non avverta l’esigenza di placare il grido “fuori fuori “dei suoi supporter vecchi e nuovi, la dice lunga sulle sue effettive capacità di direzione politica».
Altro che volontà di distruggere il Pd dopo aver distrutto l’Ulivo, come attacca il premier. Lo slogan dell’Ulivo, ricordano i bersaniani, «era ”uniti per unire”, quello del Pd di Renzi invece è diventato nell’inconsapevolezza della sua curva di aficionados “divisi per dividere”».
Chi resta senza parole oggi è Gianni Cuperlo, non ringraziato da Renzi per aver cambiato verso sul referendum annunciando la scelta di votare sì dopo il documento che prevede futuri cambiamenti della legge elettorale.
E su quest’ultimo punto Bersani ribadisce un giudizio sferzante: «Il no al referendum è un modo per far saltare l’Italicum, il resto sono chiacchiere. Su quel foglietto c’è scritto stai sereno, ma io voto no», ha detto a Palermo, a margine di un dibattito sul referendum organizzato dal centro Pio La Torre.