Bambini e cricketnoi nuovi trentini
Soglie superate. Sessanta milioni in Italia, 520mila in Trentino. Meno dell'1% della popolazione nazionale. Siamo piccoli, siamo pochi, siamo laboriosi, abbastanza intelligenti e relativamente fortunati. Ricchi abbastanza per allargare la famiglia.
E difatti cresciamo demograficamente anche noi, perché più dei vecchi trentini crescono i nuovi trentini. Noi albanesi e noi marocchine, noi tunisini e noi romene, noi cinesi e noi ucraine, facciamo più figli di noi giudicariesi e noi ledrensi, noi nonesi e noi solandre, noi fiemmesi e noi rotaliane. L'indice di fertilità dipende da un fattore culturale, cambia a seconda delle epoche e dei contesti sociali: le trentine fanno meno figli delle sudtirolesi, le sudtirolesi meno figli delle tedesche. Più a sud e più a nord di noi, la gravidanza non è (più, ancora) un tabù.
Se noi vecchi trentini non riempiamo più le culle, le riempiamo noi nuovi trentini. Se noi cattolici anagrafici abbiamo perso la voglia di moltiplicarci per il futuro, ci moltiplichiamo noi musulmani. Nelle società viventi, e la nostra nonostante tutto è viva, i vuoti non restano vuoti a lungo, gli spazi liberi vengono occupati.
Ecco allora che nella sala d'attesa del pronto soccorso pediatrico, noi vecchi trentini possiamo sperimentare sulla nostra pelle che cosa significa essere diversi, essere minoranza: circondati come siamo dai nuovi trentini con la barbe e la pelle più scura, dalle nuove trentine con il velo, e con in braccio tutti i bambini con gli occhi come olive nere che noi non abbiamo fatto.
Ecco allora che nelle strade e ai giardini, la domenica pomeriggio, quando i vecchi trentini sono in montagna o al lago o sonnecchiano nei loro salotti, noi nuovi trentini – più giovani, più affamati di vita e di normalità occidentale – nonostante il nostro 8% ci conquistiamo la maggioranza della visibilità nel passeggiare a braccetto, nelle file dal gelataio, sulle panchine delle piazze, le piazze che i vecchi trentini lasciano vuote.
Ecco allora che, il sabato pomeriggio, nel tristissimo parcheggio vuoto del tristo palasport, noi nuovi trentini bengalesi, cingalesi, pakistani, ci organizziamo una partita di cricket, con tanto di mazze, palle e wicket. E l'asfalto grigio delle Ghiaie, mentre il sole tramonta dietro il Palon, ci pare quasi il prato verde di una città orientale dove i campioni biancovestiti si sfidano nello sport più britannico e più elegante del mondo, lo sport in cui i signorini inglesi (il berretto a visiera a proteggere la bianca pelle, le delicate efelidi), gareggiano ad armi pari con i loro ex sudditi bruniti e olivastri, coloured insomma, e spesso perdono le partite, dopo aver perduto l'impero.
E i vecchi trentini reduci dalla ciclabile si fermano a guardare: lo spettacolo, impensabile solo venti anni fa, di noi nuovi trentini che – con la magia del cricket – trasformiamo un piazzale squallido in un prato all'inglese, attraverso i gesti rituali di un nobile sport. Un miracolo di periferia. Gli spiazzamenti della vita. Almeno finché le ronde non ci cacceranno via.