Artigiani e microimpreseda mille euro al mese (se va bene)
Si ripete spesso che l’Italia è il paese delle partite Iva. Altrettanto spesso si ripete che le innumerevoli piccole e piccolissime imprese, spina dorsale dell’economia del Belpaese, sono gravate da ogni sorta di vincolo burocratico e da un peso fiscale soffocante. Sulla prima considerazione, c’è poco da obiettare. Sulla seconda... beh, i numeri -numeri, e non i facili pregiudizi - ci suggeriscono qualche osservazione maligna.
Secondo i dati sulle dichiarazioni dei redditi per il 2006 (pre crisi, dunque) diffusi dal Dipartimento delle Finanze, su 4,2 milioni di titolari di impresa, circa 800 mila hanno chiuso l’anno sotto zero, con reddito negativo.
Più o meno la metà di quei 4,2 milioni di imprese hanno dichiarato di aver guadagnato meno di 20 mila euro; nel dettaglio, 567 mila partite Iva hanno dichiarato tra 10 e i 15 mila euro.
Secondo i dati sulle dichiarazioni dei redditi per il 2006 (pre crisi, dunque) diffusi dal Dipartimento delle Finanze, su 4,2 milioni di titolari di impresa, circa 800 mila hanno chiuso l’anno sotto zero, con reddito negativo.
Più o meno la metà di quei 4,2 milioni di imprese hanno dichiarato di aver guadagnato meno di 20 mila euro; nel dettaglio, 567 mila partite Iva hanno dichiarato tra 10 e i 15 mila euro.
In pratica, hanno prodotto un reddito di circa mille euro al mese.
Possiamo anche ricordare che il 60% dell’Ires, l’imposta sul reddito delle società, viene pagato dallo 0,8% delle società di capitali di maggiori dimensioni; o che i due terzi del prelievo dell’imposta sul valore aggiunto dipende dall’1% delle partite Iva attive in Italia.
Le associazioni di categoria non ci risparmiano dettagliate spiegazioni di questo stato di cose, ma anche gli osservatori più distratti non possono negare che quelle cifre possono rappresentare «un indice non irrilevante di infedeltà fiscale».
Comunque sia, se questi sono i numeri, tra i nuovi poveri dovremo considerare anche molte delle partite Iva in circolazione.
Possiamo anche ricordare che il 60% dell’Ires, l’imposta sul reddito delle società, viene pagato dallo 0,8% delle società di capitali di maggiori dimensioni; o che i due terzi del prelievo dell’imposta sul valore aggiunto dipende dall’1% delle partite Iva attive in Italia.
Le associazioni di categoria non ci risparmiano dettagliate spiegazioni di questo stato di cose, ma anche gli osservatori più distratti non possono negare che quelle cifre possono rappresentare «un indice non irrilevante di infedeltà fiscale».
Comunque sia, se questi sono i numeri, tra i nuovi poveri dovremo considerare anche molte delle partite Iva in circolazione.