Il futuro del Pd è cruciale per l'Italia
Caro direttore, il titolo del tuo editoriale 3 marzo mi è apparso l'anticipazione di un necrologio: «Pd all'anno zero, partito da rifare». Con un seguito incandescente: « la gravità di tale sconfitta (elettorale) peserà a lungo sulla sinistra e sul Paese per le conseguenze di ingovernabilità che porterà con sé, richiederanno per il Pd un risoluto cambio di rotta, non solo di rottamazione totale del gruppo dirigente attuale, capace solo di perdere ». Bersani ha ammesso la sconfitta, allucinante ritrovarsi in Parlamento «vincitore perdente», impegnato dal risultato elettorale ad assumere l'iniziativa di coalizione, semmai anche in «tecnica governante». È anche il segretario di un partito, colpito duramente: tre milioni e mezzo di voti persi in cinque anni, il minimo storico dei consensi per il centro sinistra in termini assoluti.
Oggi, sentita la direzione maggioritaria del Pd, il segretario potrebbe assicurare contenuti forti al suo proclama in aula, gli «otto punti» per un governo a obiettivi urgenti. Andrà anche a dire che certe cifre di dissenso, adesso scritte sulla facciata della nuova legislatura, nessuno le aveva preannunciate (abbondano, peraltro, quelli che «avevano già capito prima»).
Se osserviamo i risultati del 2008, vediamo bene quanto sia cambiato il vento: il centrodestra aveva allora il voto di quasi la metà degli italiani, ora soltanto il 30 per cento sta dalla sua parte. Il Pdl aveva ottenuto il 38 per cento, oggi ha perso oltre 15 punti.
Tuttavia, la sentenza vera è venuta dall'elettorato Cinque Stelle, quasi tutta ancora da interpretare. Ma, adesso, un tentativo di alta politica (di confronto?) c'è, la scommessa di dialogo. Il rischio grave, per il Pd (che al confronto «largo» ci sta) è che Grillo si comporti come potrebbe comportarsi il Pdl di Cicchitto: consentire a Bersani di esporsi per poi farlo fallire, retrocedendolo a un ruolo gregario, sostanzialmente annullando l'effetto del suo primato elettorale.
È una posizione scomodissima, per Bersani, la peggiore immaginabile. Eppure nessuno (Pdl a parte) dovrebbe avere interesse a tifare per un suo fallimento. È anche vero che quando Bersani, con un ritorno d'orgoglio, afferma l'intenzione di «tenere la barra in mano», in realtà dice solo una mezza verità. La barra in mano, una volta di più, toccherà di tenerla al presidente della Repubblica, salvaguardia per tutti. Ma tornare subito al voto è impossibile, oltre che suicida. Napolitano non può più sciogliere le Camere.
Pesa molto riconoscere che «la sconfitta» non sia solo nell'effigie politica del Pd? In effetti, sconfitta totale è stata per un'intera classe dirigente, fin qui mancata, convengo con l'editoriale. Il tempo legislativo utile (Porcellum e altro) si è perso per diserzioni collettive dai doveri, mentre Mario Monti era ancorato alle sue adempienze internazionali (purtroppo ultimamente smarrite, incautamente, nello scenario elettorale). Ma non sarebbe risolutivo, oggi, livellare il terreno politico del partito. Solo un massimo di autolesionismo. Occorrerebbe dare precedenze, segnare l'essenziale riformistico, ricercando colleganze impegnative nell'area di Grillo, non tutta sfigurata. Rimane vero, comunque, che il ruolo conduttore di Bersani, nella legislatura appena avviata, è una questione enorme. Oggi, però, in direzione centrale del Pd, la «nuova» (?) architettura di partito potrebbe essere messa in momentanea parentesi, perché le urgenze nazionali vengono prima di quelle di partito.
A questo punto, quanto sarebbe risolutivo, sullo spazio largo del Paese, rimuovere le attuali realtà partitiche, proprie del Pd? Quella risoluzione, temibilmente, porterebbe a una novità perditempo, tutta incespicata tra individualismi insorgenti di nuovi padri fondatori. Certamente, tre milioni e mezzo di voti in meno non si spiegano solo col disorientamento degli elettori davanti a «messaggi semplificatori» provenienti da Berlusconi e da Grillo. Bersani ha riconosciuto l'inadeguatezza della proposta elettorale, senza una chiara «idea complessiva». Oggi, tagliare esistenze politiche e basta, non risolve evidenze drammatiche. Occorre tempo di ripensamento umile e congegnato. Se si punta tutto sulla mera ricostituzione di un partito di massa, radicato nel territorio, e poi non ci si accorge di interi pezzi di elettorato che non solo non arrivano, ma se ne vanno (mentre dieci milioni di elettori ex berlusconiani smobilitano!) vuole dire che era illusoria l'impostazione di base.
Legittimo e realistico, per il gruppo dirigente, riaprire l'eterno dossier dell'identità e della natura del partito democratico, ma occhi aperti su certe frenesie incombenti, autore un istrione navigante sulle piazze nazionali. Troppo anticipata, dunque, l'introduzione a un necrologio, rispetto all'ultimo partito che in Italia mantiene una significativa struttura nazionale. Adesso, per Grillo, dovrebbe essere decapitata, come le altre. Lui vorrebbe aprire il Parlamento «come una scatoletta di tonno».
Sintesi descrittiva di un intento di ridurre anche il Pd a mero agglomerato di potentati locali, come di fatto sono già le altre formazioni politiche. Ma resta, complessiva e drammatica, la domanda: può esistere democrazia senza partiti? Cosa andrebbe rimesso in moto, conseguentemente? La ricerca suggestiva di qualche miliardario rifondatore e padrone? Non bastava Berlusconi? Oppure, il vuoto sarebbe destinato ad essere riempito da un nuovo partito tecnocratico calato dall'alto? Anche ammettendo l'inadeguatezza burocratica di certi apparati che sopravvivono alla crisi del sistema dei partiti. Fin qui, Beppe Grillo non ha improvvisato niente, neanche quando proclama, a pagina 79 del libro scritto con Dario Fo e Gianroberto Casaleggio: «Noi vorremmo che i partiti scomparissero radicalmente». A esito compiuto, avremmo, al massimo, riguadagnato un predicatore vincente già visto, perfino mascherato, a uso della stampa estera.
Necrologi a parte, la nostra democrazia sopravviverà solo se dalle macerie nasceranno veri partiti democratici. Sarebbe un patto reale da suggellare. A ciascuno compiti in casa, tempi e modi.