Il Pd e la sindrome di Bruto
Un fantasma si aggira nel Pd: quello di Marco Giunio Bruto.Come il cesaricida più famoso ("Tu quoque, Brute, fili mi!"), i figli del sogno unitario nato dall'Ulivo di Romano Prodi non riescono a togliersi il pugnale dalle mani.
Un fantasma si aggira nel Pd: quello di Marco Giunio Bruto.
Come il cesaricida più famoso ("Tu quoque, Brute, fili mi!"), i figli del sogno unitario nato dall'Ulivo di Romano Prodi non riescono a togliersi il pugnale dalle mani.
Così, dopo il due volte trafitto Romano Prodi (ai tempi dell'Ulivo da Massimo D'Alema e poi, l'anno scorso, nel voto per la presidenza della Repubblica), dopo Walter Veltroni, dopo Pierluigi Bersani, ora tocca a Enrico Letta offrire il petto ai suoi compagni, in particolare al "figlio" del Pd, Matteo Renzi.
Tutti, tranne Letta, erano forti di milioni di voti ricevuti alle elezioni politiche e/o alle primarie di partito o di coalizione. E Renzi stesso è stato scelto da milioni di elettori democratici.
Ora, la domanda è una sola: consumato l'ennesimo delitto, quanti mesi passeranno prima che nel Pd dall'entusiasmo per il nuovo segretario si passi ai mugugni, al disconoscimento e all'ennesimo cesaricidio?
Perché Renzi dovrebbe saperlo, come è andata a finire la storia di Bruto: male, molto male. Con il suicidio.
Ma quello che rischia oggi il Pd non è più solo il suicidio del suo dux pro tempore: quello che rischia è il proprio suicidio. E fa una certa differenza.