La dittatura del politically correct
Dieci giorni fa in Belgio è stata approvata una legge per estendere l'eutanasia anche ai bambini e ai minori di diciotto anni. La motivazione, che ha portato al voto favorevole di una larga maggioranza, è stata la volontà di ampliare le libertà individuali dei singoli creando pari opportunità anche per i bambini rispetto alle «libertà» di cui già godono gli adulti.
Dieci giorni fa in Belgio è stata approvata una legge per estendere l'eutanasia anche ai bambini e ai minori di diciotto anni. La motivazione, che ha portato al voto favorevole di una larga maggioranza, è stata la volontà di ampliare le libertà individuali dei singoli creando pari opportunità anche per i bambini rispetto alle «libertà» di cui già godono gli adulti.
In Italia il dipartimento per le Pari opportunità ha pubblicato nelle settimane scorse degli opuscoli destinati agli insegnanti delle scuole sconsigliando d'ora in avanti di leggere le fiabe ai bambini. Costituirebbero una violazione delle pari opportunità parlando di prìncipi che si innamorano di principesse, veicolando così un modello unico di affettività, invece di modelli plurali.
Sostanzialmente Biancaneve, Cenerentola e la Bella Addormentata «imporrebbero» arbitrariamente una visione tradizionale di amore (e quindi di famiglia) che non si attaglia ai tempi moderni e alla pluralità di variabili possibili, di cui la scuola si dovrebbe fare promotrice.
In Francia da tempo ormai va per la maggiore una corrente di pensiero volta a «superare» nelle leggi i termini «padre» e «madre», ritenuti troppo orientati sessualmente, per sostituirli con dei più aperti «genitore 1» e «genitore 2». La finalità dichiarata è quella di creare pari opportunità per tutti ed evitare discriminazioni, senza ingenerare l'idea che ci debba essere per forza un padre ed una madre per avere dei figli.
L'ansia del politically correct è diventata ormai nella nostra società un imperativo assillante, trasformandosi in una vera e propria ideologia che si impone all'opinione pubblica ammantando di nobili intenti (eliminare le discriminazioni e ampliare le libertà individuali) battaglie politiche altrimenti poco giustificabili.
Ora, è vero che nella nostra società le discriminazioni sono ancora molte e in alcuni casi degenerano anche in episodi di violenza (per esempio nei confronti delle donne e degli omosessuali), e in un Paese civile è necessario impegnarsi in tutti i modi - specie sul piano culturale - per promuovere rispetto nei confronti di ciascuno. Ma questo non può avvenire appiattendo tutto in un'omogeneità indifferenziata, per cui non debba più esserci padre e madre, cenerentola e il principe azzurro, distinzione tra la scelta di uccidersi di un adulto e quella affidata ad un bambino.
La diversità semmai è un valore aggiunto che va preservata, e presentata accanto a ciò che è «normalità» (o ritenuta tale). Di certo non cancellata o compressa in un'indistinta, omogenea marmellata dove non devono apparire differenze e diversità, perché queste negherebbero l'eguaglianza.
Di fondo c'è un retropensiero incistato, cioè l'ideologia dell'eguaglianza come negazione delle diversità di cui l'umanità e la natura sono in realtà espressione. Diversità che sono anche di genere.
La stessa logica del politically correct a tutti i costi porta anche all'effetto opposto, privilegiando la diversità a scapito degli altri. La diversità diventa elemento di discriminazione a rovescio, dandogli uno «status» superiore al resto. In questa visione si muovono per esempio le «quote rosa», dove la libertà dell'elettore di scegliere chi ritiene più meritevole e più adatto viene «falsata» dall'obbligo di scegliere un candidato «di genere» al posto di un candidato «di merito».
Diverso sarebbe il caso in cui alle donne, per esempio, non fosse consentito l'elettorato passivo o attivo, contro cui sono state condotte decisive battaglie di civiltà, anche nel nostro Paese. Ma oggi in Italia le donne possono essere candidate ed elette, come tutti gli altri, senza distinzione di sesso ed orientamento sessuale. Se gli elettori/elettrici ritengono di scegliersi il proprio rappresentante non in base al genere, ma al merito, perché negarglielo per legge? Di fatto è una limitazione di libertà che si impone ideologicamente.
In piccolo, è una sorta di prescrizione da Stato etico. Come lo sono le scelte effettuate in Olanda, in Francia e sempre più anche in Italia, quando si impongono per legge obblighi di pensiero «conforme». Chi non pensa politically correct, risulta fuori dalla legge. Per certi versi anche l'idea di creare un reato di «femminicidio» consiste in una sorta di anomalia. Giacché se qualcuno viene ucciso, non è che cambia qualcosa se si tratta di un uomo o di una donna, di chi ha un orientamento sessuale etero, trans o bisex, di uno straniero o di un italiano, di uno con i capelli biondi o castani. Si tratta della soppressione di una vita, cioè un qualcosa di gravissimo sempre.
Invece di creare cultura, per esempio, contro la violenza, di qualunque genere si tratti, si pensa di risolvere il problema creando il reato di «femminicidio», quasi ingenerando l'idea che ci sia differenza se chi muore è di genere maschile o femminile. Tante volte basterebbe un po' di buonsenso. Anche nell'uso linguistico dei termini. La crociata che si sta portando avanti da tempo per la femminilizzazione di tutti i nomi, quasi che modificando la desinenza alle parole cambi la sostanza dei fatti, assume tratti di ridicolo evidenti, di cui solo i proponenti non si accorgono.
Passi per sindaca, ministra, assessora e rettora per indicare le cariche al femminile, nonostante l'orrore fonetico di certe storpiature. Ma l'imposizione obbligata di uso del genere femminile per termini neutri sta portando a degli obbrobri linguistici che finiranno soltanto per abbruttire ulteriormente il nostro già scalcinato uso quotidiano della lingua italiana. Come si pensa di declinare il femminile di orefice? Oreficia? E amministratore delegato? Diventa l'amministratora? A dir la verità non si è mai sentito che Susanna Camusso si qualificasse come la segretaria della Cgil. E quanto ai termini giornalista e farmacista, come dobbiamo trasformarli al maschile? Il farmacisto e il giornalisto? E il vigile uomo lo trasformiamo in vigilo per parità di genere?
È evidente come a monte ci sia una battaglia ideologica che usa l'obbligo di genere «per forza» al fine di ottenere risultati di legittimazione e di affermazione ritenuti non adeguati e sufficienti nella società. Ma perché non lasciare a ciascuno la libertà di scegliere se scrivere governatore o governatora a piacimento quando si parla di Polverini o di Bresso? Perché imporre parlamentara o corridora, se si tratta di una persona di genere femminile, pena altrimenti l'essere additati quali maschilisti impenitenti?
L'abuso del politically correct, invocato spesso surrettiziamente per camuffare altri tipi di obiettivi e di battaglie nascoste, rischia di diventare una vera e propria dittatura, se non si usa il buonsenso. E il pericolo è che finisca per provocare il risultato opposto, cioè il rigetto, ampliando la schiera di chi ritiene che tante giuste battaglie per le pari opportunità siano in realtà soltanto dei mezzucci per ottenere ciò che nella realtà e con le proprie capacità non si riesce ad ottenere.