Ospedali di vallata, presidio importante del territorio
Ospedali di vallata
LA LETTERA
Il problema sanità tiene banco da parecchio tempo. Si propongono varie «terapie» che poi vengono puntualmente riviste e rimodulate. Quello che sconcerta è nel non intravvedere un programma chiaro: si ha l'impressione di navigare nella nebbia. L'argomento su cui però vorrei richiamare l'attenzione è quello emerso in vari congressi nazionali ed internazionali e cioè il rischio dell' «impiegatizzazione» dell'attività, la quale dovrebbe essere vissuta ancora come una professione; mi riferisco soprattutto a chi lavora negli ospedali periferici. La razionalizzazione e la messa in rete della loro attività va bene, ma togliere la disponibilità notturna e festiva e voler sopprimere primariati importanti, tipo quello di anestesia e rianimazione, è voler depotenziare e dequalificare l'ospedale, rendendolo non più «appetibile» sia per i medici che per i pazienti.
Prof. Claudio Eccher - Trento
LA RISPOSTA
Quando l'imperatrice Maria Teresa, dopo la metà del Settecento, avviò le riforme che stanno ancora alla base della civile vivibilità del Trentino, non fece tanto leggi e regolamenti, ma iniziò a preparare persone e professioni, radicandole (questo fu il suo segreto) sul territorio. Sono i sistemi clientelari, e «borbonici» che accentrano mansioni e professioni nelle «capitali», presso le corti di chi comanda o è più ricco. Una buona amministrazione ha i suoi funzionari sui fronti della socialità, non nei palazzi dove si fa carriera. La prassi asburgica era che «capitani distrettuali», i giudici, i medici, gli insegnanti risiedessero dove operavano (diciamo a Cles, a Tione, Malé, Cavalese, Borgo...). Le periferie non andavano sguarnite di servizi e di classe dirigente. Questa visione è stata poi ripresa dall'Autonomia con il Pup kessleriano del 1967, che andò concorrente rispetto alla megalopoli atesina (un'unica linea urbanizzata da Rovereto a Bolzano) che molte forze economiche auspicavano. Venne scelto invece di presidiare i territori con la «città diffusa».
Maria Teresa istituì accademie e scuole magistrali e in quattro anni (che tanti bastano) ebbe pronti maestri, ufficiali, medici, chimici da inviare sul territorio, e anche preti, perché i parroci erano pagati dal governo, ma dovevano uscire dalle «curie» e dai conventi e abitare i paesi, un parroco ogni 700 abitanti. Non occorreva che fossero «santi», dovevano essere capaci di ascoltare, insegnare e aiutare. Di qui, anche nel Trentino, nacque la Cooperazione.
La lezione da trarre è che le riforme vere si fanno investendo sulle professionalità e sulle presenze, non tagliando i costi, bloccando i «turn over» (un autentico suicidio per le istituzioni, perché i giovani imparano e si formano il carattere lavorando «insieme») non teorizzando pendolarismi logoranti. I quali portano chi vi è costretto a cercare di andarsene al più presto e chi li subisce a perdere il rapporto di fiducia essenziale nei confronti di chi esercita una professione, in ospedale come a scuola. Se ad ogni visita trovo un medico diverso, che pur applica i medesimi «protocolli», cerco un ospedale «stabile» fuori provincia, non faccio mica il «totomedico» a Trento.
Non sappiamo cosa accadrà degli ospedali periferici. Apprezzando la piena onestà intellettuale (non solo) dell'assessore Borgonovo Re non dubitiamo della lealtà dei suoi sforzi a fronte di una situazione difficile. La bozza di piano sanitario, peraltro, è ancora abbastanza incompleta per prestarsi a vistose modifiche. Tre cose ci sembra di poter rilevare. La prima è che se il Trentino dovesse seguire i parametri nazionali, potrebbe subito gettare alle ortiche la sua storia e la sua autonomia. Il «parametro» globale di una terra con 500 mila abitanti è di essere una periferia suburbana, il classico sobborgo di Milano. Per fortuna non è così. La seconda è la carenza di conoscenza psicologica delle valli trentine, sempre a rischio diaspora. Se si chiude o si ridimensiona Tione, o Cavalese, o Borgo? la gente non verrà a Trento, già superaffollato, con professionisti bravissimi e dedicati, ma quasi impossibilitati a contatti umani, ma andrà a Bolzano, a Merano, a Brescia, a Verona, a Pavia, come già sta andando. La terza è che occorrerebbe ripartire dalla valorizzazione professionale («Ridateci i primari», non «direttori di carte, turni e spese») motivando anche realtà periferiche dove un giovane può imparare senza essere ridotto a quegli umilianti orari impiegatizi, imposti anche ai medici di base che il venerdì staccano. Occorre incentivare la passione di servizio in chi sceglie la professione medica, non frustrarla. O davvero bisogna andare con «Medici senza frontiere» per sentirsi realizzati? Vorrà dire che se chiuderanno gli ospedali le valli «importeranno» qualche ospedale da campo dalle zone più disagiate!
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