Scuola trentina, una preoccupante inversione di tendenza
Scuola trentina, una inversione di tendenza
Ho la fortuna e il privilegio di insegnare da molti anni in Trentino, regione che può vantare a giusto titolo una scuola di qualità. Ultimamente, però, registro una preoccupante inversione di tendenza dovuta a scelte politiche miopi dettate da freddi calcoli di bilancio, scelte che si celano dietro parole impersonali come dimensionamento o razionalizzazioni, vale a dire l’accorpamento degli Istituti sotto i 400 studenti: ciò significa sposare l’idea di una scuola massificata che mortifica professionalità e livella intelligenze. Avremo mega istituti con classi sempre più numerose, al pari delle batterie di galline degli allevamenti intensivi. Condannate a morire ingloriosamente, le piccole scuole, che hanno significato qualità dell’offerta formativa e identità trentina. In nome di slogan ad effetto e di ideologie neoliberiste sacrificheremo la nostra scuola, unanimemente riconosciuta e apprezzata. L’attuale concorso docenti bandito dalla Provincia per 160 posti (tra scuola dell’infanzia ed elementare) va in questa direzione: sono arrivate già 6000 domande. Essendo aperto a tutti gli insegnanti precari storici trentini verranno sbaragliati: professionalità consolidate in anni e anni di insegnamento spazzate via come foglie al vento. Sono questi i valori che caratterizzano il nuovo sbandierato corso della scuola trentina?
Riccardo Ianniciello, insegnante scrittore
Caro Ianniciello, partiamo da una constatazione. La scuola, nel Trentino, non è solo di qualità, è la sola vera risorsa che il territorio ha. Una terra di 500 mila abitanti può vantare tutte le nicchie produttive possibili (agricoltura, turismo, artigianato, industria …) ma sarà sempre spazzata via dal mercato, e dalla storia, se non ha uomini preparati. La forza del Trentino è stata la scolarizzazione. Sempre.
Nell’Ottocento gli emigrati trentini in America, poverissimi, sapevano scrivere, leggere, e grazie alla loro scolarizzazione hanno «by-passato», nell’integrazione, una o due generazioni di immigrati da altre regioni, semianalfabeti. Anche oggi, con la crisi, i nostri ragazzi trovano lavoro all’estero perché il sistema scolastico «vero» (quello che insegna a scrivere, non solo a cliccare o a fare lo stampatello) è sempre migliore di quello di molti paesi, anche «gettonati», dove la scuola di base non costruisce uomini attenti e liberi, ma serve a integrare nel consumismo un sottoproletariato mediatico. Decisivi anche gli istituti professionali, che danno un lavoro e impediscono la dispersione di intere generazioni di giovani, naufraghi dello sballo per la frustrazione dello stacco fra ciò che studiano e ciò che non ottengono.
Ora questa ricchezza della scuola è a rischio. Lei da insegnante lo avverte. Le famiglie lo sanno. I responsabili delle assunzioni di imprese, cooperative, negozi lo dicono, misurando nei colloqui di lavoro un divario crescente fra preparazione formale e preparazione reale (caratteriale, che è ciò che più conta). Questa caduta nella preparazione viene accentuata dai tempi non facili (diciamo così) e dall’anticultura programmatica - fin quasi al disprezzo - dell’ultimo ventennio, ma il Trentino ha avuto il torto di non contrastarla abbastanza. Di non capire, ad esempi,o che le biblioteche e le associazioni culturali di valle, cui oggi vengono tagliati i fondi (irrisori, a fronte del fiume di denaro che va in altre direzioni, non sempre virtuose) non sono l’hobby di alcuni volontari, ma l’humus di cui anche la scuola ha bisogno per crescere. Di non capire che una scuola deve saper andare anche «contro» il suo tempo. Deve insegnare a «scrivere» ad esempio, anche se poi chi scrive userà il computer, perché la scrittura non è la traduzione su carta di alcune parole, è l’esercizio da cui nasce il pensiero. È il supporto del pensiero.
La scuola trentina, buona, ha fatto alcuni errori fondamentali. Ha spezzato le presenze e i riferimenti didattici sul territorio pensando che bastasse creare plessi affidati a dirigenti e dichiararli «autonomi». Gli istituti «comprensivi» alla resa dei conti, non sono stati una grande trovata. Lo dicono gli stessi dirigenti. Per fare bella figura ed essere riconfermati con stipendi che li rendono non i «primi fra i pari» dei loro colleghi, ma controparte, molti si trovano a dover appagare un potere politico vicino e pressante (senza una figura professionale intermedia di snodo,come il Sovrintendente) e situazioni familiari sempre più esigenti e difficili. La scuola trentina, di fatto, è presa nella morsa fra populismo e politicismo. Alcuni dirigenti fra i più meritevoli sono stati scoraggiati, lo stesso dirigente generale ha deciso di andarsene.
Ora si scopre che il meccanismo «onnicomprensivo» è troppo costoso, ma invece di prendere la crisi a spunto per un’analisi degli errori compiuti, dalla riforma kessleriana dei centri scolastici in poi, si persevera nell’accentramento, che porterà a istituti gonfiati, classi più numerose. Il sabato libero per tutti, se non verrà organizzato, si tradurrà in quattro mattine «diseducative» al mese. Lasciamo da parte la terza lingua, proposito lodevolissimo (e costosissimo) avviato senza chiedersi perché sia fallito il progetto di seconda lingua. Perché, dopo otto anni di insegnamento, sono così in pochi a conoscerla davvero?
Poi i precari. Possono esservene anche di meno preparati, ma hanno maturato un’esperienza sotto gli occhi di tutti. Conosciuta. Si abbia la lealtà di valutarla. Si propongano corsi di sostengo per i più incerti … ma un concorso con 6.000 candidati, come si è letto, con punti di partenza tanto difformi, con l’esperienza nefasta dei test d’ingresso all’università alle spalle, appare davvero uno «tsunami». I concorsi si sa, sono come gli appalti. Non sempre, quasi mai, vince il migliore. Ci si fermi un attimo, quindi, a pensare.