Il moralizzatore «moralizzato»
Il moralizzatore «moralizzato»
Lunedì forse si saprà se il sindaco di Roma Ignazio Marino lascerà definitivamente l'incarico, o se la telenovela a puntate «mi dimetto» «non mi dimetto» andrà avanti ancora per settimane, quando mancano due mesi scarsi all'inizio del Giubileo e all'arrivo nella capitale di 35 milioni di pellegrini e visitatori. Approdato in Campidoglio proclamandosi alfiere della legalità e profeta dell'anticasta, Marino è finito per scivolare su fatture taroccate, parcheggi vietati con la Panda rossa, presenze a scrocco agli incontri internazionali delle famiglie, e tante altre amenità compresa quella di non essere mai a Roma quando ce n'era bisogno e urgeva la sua presenza di primo cittadino.
A dimostrazione che il moralismo di scuola populista in politica non paga. Primo, perché c'è sempre qualcuno più moralista di te, e a un presunto moralizzatore non si perdona se va a pranzo con la moglie (o qualcun altra) a spese del Comune. Secondo - e assai più importante - perché è sui fatti concreti e sulla soluzione dei problemi che un sindaco viene misurato. L'onestà è un prerequisito che va richiesto alla politica, ma non può sostituire la mancanza di competenza e di un serio programma di gestione del Comune più complesso d'Italia.
Al di là della teoria dei complotti su chi gli avrebbe scavato la fossa (probabilmente se stesso), Marino è il simbolo del fallimento di un modo di fare politica (o di non fare politica), affidandosi ai cortei di piazza, ai «mi piace» su facebook, alle comparsate davanti alle telecamere per celebrare matrimoni gay in assenza di una legge e quindi ai soli fini televisivi, alla presenza ai convegni internazionali sui cambiamenti climatici, quando Roma ad ogni acquazzone si blocca e i tombini scoppiano, senza che nessuno riesca mai a metterci mano.
È la prova provata che l'illegalità, drammaticamente imperante nella capitale, si combatte facendo funzionare le cose e con l'efficienza amministrativa, non con slogan e piazzate varie, e nemmeno con gli assessorati «alla legalità» (e gli altri assessorati? Sono dispensati dalla legalità?). Questa è la debolezza che ha portato il sindaco alle dimissioni, più che gli scontrini «furbetti». Roma è una città in totale dissesto.
I continui finanziamenti del governo a «Roma capitale» finiscono in un buco nero perché servono a tenere in piedi un apparato di 65.000 dipendenti pubblici, un esercito che nemmeno la Fiat dei tempi d'oro ha mai avuto. Le società partecipate, da quella dei trasporti, l'Atac, a quella dei rifiuti, sono dei pozzi senza fondo che inghiottono centinaia di milioni di euro senza riuscire a garantire collegamenti decenti o la pulizia delle strade dall'immondizia che incombe ad ogni angolo. Solo l'Atac ha sulle spalle 550 milioni di euro di debiti che continuano a crescere a dismisura, e più soldi s'immettono più vengono usati per «stabilizzare» i precari, in un gorgo di assunzioni senza fine, invece di far muovere gli autobus e magari far tornare i conti che dal 2003 sono fuori controllo.
A meno di due mesi dall'inizio del Giubileo non è partito nemmeno un cantiere per sistemare le buche delle strade, costruire i percorsi pedonali o installare i bagni pubblici dove non ci sono. Il Comune è bloccato, nessuno sa chi deve firmare le autorizzazioni o rilasciare i permessi. Mancano ostelli di accoglienza, e anche quelli promessi sono rimasti sulla carta. Il lungo Tevere è un ricettacolo di sporcizia e di trascuratezza. I palazzi storici sono puntellati, le vie di notte sono buie e non c'è illuminazione, gli ingorghi della viabilità sono la normalità quotidiana. Senza badare all'illegalità diffusa, tanto che a stazione Termini capita di trovare regolarmente tassisti senza tassametro in cerca di polli da spennare, senza che ci sia un controllo o la verifica di un vigile urbano.
È questo fallimento che ha minato il sindaco Marino, aggravato dal fatto che il medico italo-americano a tutto si è dedicato in questi due anni, dalle comparsate in bicicletta per città con zainetto sulle spalle ai cortei in fascia tricolore, tranne che metter mano ai problemi della città, dall'arrivo degli immigrati allo stato delle periferie, al funzionamento dell'amministrazione comunale. La fragorosa disfatta del «marziano», come subito è stato battezzato, deve aprire una riflessione seria anche sulla selezione della classe politica, troppo facilmente affidata alla cosiddetta «società civile», senza verificare se sussistono le capacità per gestire una città o far funzionare un assessorato. Non basta dire «io sono onesto e combatto le mafie». È il non funzionamento delle cose che favorisce le mafie, e solo facendo lavorare l'amministrazione si combattono le mafie. Non servono i proclami, e nemmeno la rivendicazione di «purezze» inesistenti. Occorre combattere l'inefficienza, aggredire le lungaggini burocratiche, avere il coraggio anche di far fallire l'Atac se questo serve a far ripartire i trasporti pubblici su nuove basi, azzerando prebende e privilegi politici assegnati a piene mani.
In questi venti-trent'anni la gestione di molte città e capoluoghi è peggiorata anche perché la politica ha rincorso la moda del «personaggio famoso», dell'esponente di spicco della società civile, del campione della legalità, come se mettere chirurghi o magistrati, cantanti o scienziati a fare i sindaci e gli assessori fosse sufficiente per risolvere i problemi. Fare il sindaco è una cosa seria: non ci si improvvisa, bisogna saperlo fare (o comunque cercare di imparare). Occorre mettersi a capo basso sui problemi, aggredirli e non aggirarli per darvi concreta soluzione. Senza voler apparire in continuazione ai talk show in televisione, o spintonare per essere in prima fila dal papa.
La meteora subito eclissata del sindaco naïf, imperterrito nello snorkeling e nei viaggi in America, mentre l'Urbe continuava a sprofondare, deve essere di lezione all'intera politica italiana, anche al Trentino. Sia nella scelta del personale politico a cui affidare le città, sia nella capacità di realizzare ciò che si è detto e assicurato. L'opinione pubblica ormai non si accontenta più di promesse, e nemmeno di facili patenti «da moralizzatore». Se è solo su questo che si basa la forza di un sindaco, si fa presto a risultare a sua volta «moralizzati», come la storia di Marino tristemente insegna.