Morti solitarie: troppi anziani abbandonati
Alcuni giorni fa la prima pagina dell’Adige riportava una notizia piuttosto dolorosa: il ritrovamento di una donna anziana di 89 anni morta nella propria abitazione da ben 20 giorni. Il fatto era avvenuto nel paese di Tuenno nella ricca valle di Non; una piccola comunità di circa 2.435 abitanti con una presenza di ultrasessantacinquenni pari a circa il 22% di poco superiore al dato provinciale (21% circa). La notizia ha sicuramente destato molto scalpore fra i residenti di quel comune famoso per essere la porta di accesso ad uno dei più pittoreschi laghi del Trentino: quello di Tovel. Notizie di anziane morte sole nella propria abitazione e ritrovate dopo giorni e giorni, nel corso di quest’anno si sono susseguite varie volte. Basti ricordare: a Caserta ritrovata donna di 63 anni morta da 2 giorni, a Benevento 79enne trovata dopo diversi giorni, a Torre del Greco donna di 75 anni trovata dopo 3 giorni, a Miscemi (Sicilia) altra anziana di 79 anni trovata dopo una settimana circa, nel quartiere romano Ponte Nona trovata dopo due anni dalla morte una 63enne e l’elenco potrebbe continuare. Il filo che lega tutti questi tragici fatti è la solitudine e l’abbandono.
In Trentino gli anziani a rischio solitudine sono circa il 15% del totale pari a circa 16.400 persone e il rischio fragilità per la classe d’età 51-80 anni è di circa il 56% che sale al 73% per la classe d’età 81-100 anni.
Un gruppo di ricercatori americani della Brigham Young University ha dimostrato che l’assenza di rapporti con gli altri può condizionare fortemente il benessere fisico e la salute, tanto da individuare nell’isolamento sociale un danno pari o superiore al consumo di 15 sigarette al giorno o all’abuso di bevande alcoliche o alla mancanza di esercizio fisico (sedentarietà). La conclusione della ricerca è sorprendente perché dimostra che chi ha rapporti sociali aumenta le possibilità di sopravvivenza del 50% e non importa che queste relazioni siano con amici, familiari, colleghi, conoscenti: l’importante è stare in compagnia.
Ma perché per le persone anziane parliamo di «rischio» solitudine? In effetti la solitudine non è un elemento di per sé negativo nella nostra vita, basti pensare quante volte abbiamo voluto stare soli per riflettere, per progettare, per scrivere un messaggio, una lettera importante e quanto lo stare soli può rappresentare una fonte di benessere interiore. In tutti questi casi la solitudine non è una patologia in quanto è una condizione voluta, cercata, liberamente scelta. Purtroppo nella persona anziana raramente la solitudine è una condizione «cercata», molto più spesso è una condizione «subita». In questo caso la solitudine assume l’aspetto del «rischio», una disfunzione da correggere, un morbo da debellare perché significa isolamento, mancanza di affetti e di sostegno psicologico, disadattamento. Una condizione inadatta per la persona che la subisce perché l’uomo, come diceva Aristotele è fondamentalmente un «animale sociale». In una società frenetica con stili di vita convulsi per l’anziano si è creata una sorta di apartheid. Velocità di fare, di eseguire, di cliccare, velocità di twittare, di fare un selfie e metterlo immediatamente in rete; la rapidità dei consumi e dei comportamenti ha messo i vecchi in un angolo ove si insinua con forza la estraneità e la solitudine. Il percepire da parte dell’anziano questo processo di lenta e progressiva emarginazione e della crescente difficoltà ad avere contatti e relazioni significative lo fa scivolare verso un mondo dove l’ansia, la paura e la solitudine diventano gli elementi predominanti della sua condizione di vita. A questa solitudine «subita», non voluta, non cercata lentamente subentra una mesta rassegnazione ingigantita da un senso profondo di abbandono.
Quelle morti, scoperte dopo giorni e giorni se non mesi debbono ricordare a tutti noi, presi da mille adempimenti lungo l’arco della giornata, che non sono solo frutto di solitudine o isolamento, ma sono anche frutto dell’abbandono. E l’abbandono in questo caso non è più solo imputabile al vecchio magari di poche parole, scontroso, con qualche disturbo del comportamento, lunatico, distratto, incerto nella parola e nei movimenti, è una responsabilità della comunità. Queste morti scoperte dopo giorni e giorni sono possibili solo se quelle persone erano per noi degli invisibili, dei corpi senza sostanza. Nessuno si accorge della loro mancanza perché erano discreti, non chiedevano aiuto anche quando ne avevano bisogno, non si lagnavano per la loro condizione di difficoltà; il bottegaio non avvertiva la loro mancanza, il giornalaio nemmeno perché non erano persone, ma ombre.
L’abbandono è quindi una responsabilità nostra e queste morti denunciano un tragico rarefarsi dei legami solidali di una comunità, delle reti parentali e amicali. Questi eventi ci ricordano quanto sussidiarietà, solidarietà, mutuo aiuto siano valori innanzitutto di civiltà e non orpelli da relegare nella marginalità. Non possiamo assistere inermi al dissolvimento del tessuto sociale dei legami fra persone e generazioni diverse.
Per contrastare l’abbandono e diminuire la solitudine che attanaglia la persona anziana non servono grandi progetti o costosi investimenti in servizi. Basterebbe riservare nei confronti di quel nonnino/a un po’ strano che abita vicino a noi nello stesso condominio o nella casa vicina un po’ di attenzione. Potremo «adottarlo» in modo molto discreto senza formalità e rivolgergli una parola amica, verificare se magari ha bisogno di un piccolo aiuto senza fargli pesare la cosa, ma lasciandoli il messaggio che possiamo essergli vicini e soprattutto che non viene abbandonato nella sua solitudine non «voluta».