La bellezza delle poesie da imparare a memoria
La bellezza delle poesie da imparare a memoria
Caro de Battaglia, ho letto con piacere quel tuo pezzo in cui parlavi dell'insegnante che per il Natale aveva deciso di leggere una poesia ai suoi alunni. Fino a non molti anni fa ciò avveniva in tutte le scuole del Regno e poi della Repubblica! Ora, purtroppo, è divenuta una notizia da annunciare sul giornale. Vorrei fare un passetto in avanti (o indietro?) parlando di poesie non solo da leggere ma da imparare a memoria. Nell'ultimo numero di «Quaderni» - periodico bimestrale del Gruppo di Poesia 83 diretto dal poeta Italo Bonassi, l'unica voce che parla di poesia rimasta in Trentino - ho letto un articolo di Elio Cristofoletti (che personalmente non conosco, ma con cui mi complimento) dove ci si informa che due psicologi statunitensi, in una pubblicazione del 2010, hanno scientificamente dimostrato come imparare a memoria poesie, ma anche nomi, proverbi e altro «aiuta la persona che possiede queste nozioni a sviluppare concetti autonomi, a vivacizzare la creatività».
Alla faccia dei nemici delle poesie a memoria, che da almeno mezzo secolo si riempiono la bocca relegando le memoria fra le cose da rottamare. Il che mi fa venire in mente la mia prima lezione al biennio dell'Istituto «Tambosi», dove arrivai quando avevo pochi anni più dei miei studenti. Il programma del biennio al «Tambosi» era semplice quanto bello: prevedeva la lettura e lo studio di prose e poesie di autori italiani e stranieri moderni. In quella prima lezione parlai di Edgar Lee Masters e della sua «Antologia di Spoon River», concludendo la lezione dettando la poesia «Andy il guardiano notturno» (una ventina di versi) dopo aver spiegato l'importanza di mandare versi a memoria: un atto d'amore verso i poeti e verso se stessi, che arricchisce la vita.
La volta dopo chiamai il primo studente a dire la poesia. Non la sapeva. A posto: 4! Neanche il secondo la sapeva. Al terzo che non l'aveva imparata si scatenarono i miei strilli, che uscirono dalla porta dell'aula, percorsero una quarantina di metri del corridoio e, entrarono nella guardiola del bidello. «Sa è suzèss, professor?», mi chiese il bidello. Niente. La volta dopo la poesia la sapevano tutti. E a decenni di distanza incontro vecchi alunni ormai in pensione come me che ancora si ricordano quei versi che li hanno accompagnati nella vita. Buon anno nuovo con la poesia.
Renzo Francescotti
Questo spunto di Francescotti sulle poesie «a memoria» (parte di una necessaria riflessione, sollevata anche da questo giornale, sull'urgenza di ripristinare una scuola più educata e preparata) lo proponiamo come una sorta di compitino per queste vacanze senza neve. Intendiamoci, quando a scuola ci davano le poesie a memoria, non eravamo proprio felici, ma poi impararle diventava quasi una gara e si ripassavano insieme, sui corridoi, fra un campanello di lezione e l'altro. Non era ripetere da pappagalli. Nei versi si sentivano le parole, un po' alla volta, entrare «dentro», con bellezza e compiutezza. È «compiutezza» la parola chiave. Per la poesia, ma anche per le lingue. Non si può imparare una lingua (e quindi gustarla per avere poi il piacere di parlarla) se non si apprendono a memoria le parole, le brevi frasi significative, i versi di poesie che facilitano concordanze e desinenze. Diventa odioso affrontare una lingua se si è costretti ad aprire il vocabolario ad ogni parola. Ma per «memorizzare» un termine bisogna ripassarlo almeno tre volte, dopo di che se ne diventa padroni, ed è una sensazione stupenda, come quando ci si accorge di saper nuotare nell'acqua o di andare in bicicletta senza cadere.
Francescotti, chi l'ha avuto come prof. lo sa, non era poi così cattivo. I 4 c'erano, certo, non erano per finta o per «terrorismo», ma si risanavano presto con la diligenza e la buona volontà, che sono le armi di studio (di lavoro, di vita) di chi - per sua fortuna - non è un genio. Francescotti cita la sempre meravigliosa «Spoon River», ma come immaginare giornate senza richiamarsi alla mente, di tanto in tanto, «la nebbia agli irti colli» di San Martino o lo «sfronda lo scettro ai regnator» del Foscolo, per esprimere in tre parole come la cultura e la poesia servano a smascherare le mistificazioni del potere? O la Luna di Giacomo Leopardi?
Torniamo alla memoria quindi, che non solo esercita la mente e la rende creativa (se non si hanno sotto mano subito, non si possono usare concetti e parole come mattoni, per costruire pensiero, o relazioni) ma immerge nella sostanza di ciò che si impara. Ed è anche, pragmaticamente, lo sapevano già gli antichi («memoria minuitur?») un'ottima assicurazione contro il dilagante Alzheimer. Francescotti poi può consolarsi. Sul suo Blog - seguitissimo - poche settimane fa, il grande giornalista e vaticanista del «Corriere» Luigi Accattoli, ha annunciato di aver avviato (a 72 anni) «un nuovo esercizio della felicità», nel reimparare le poesie mandate a memoria e poi dimenticate al liceo. Ogni nuova memorizzazione - dice - è un pezzo di vita recuperata.
fdebattaglia@katamail.com