Workshop per l’impresa sociale alla ricerca di nuovi modelli
Workshop per l’impresa sociale alla ricerca di nuovi modelli
Nella giornata conclusiva del vertice G20 di Hangzhou i leader dei paesi più potenti della Terra sembrano aver cambiato registro - almeno questa è la lettura che ne danno alcuni osservatori - sul tema della crescita economica. Non mettendo da parte l’obiettivo generale (a dire il vero piuttosto complesso da realizzare) di veder il segno più davanti al dato della variazione del Pil, ma scegliendo aggettivi qualificanti per nulla scontati. «E’ qui a Hangzhou – osserva il Presidente del Consiglio Matteo Renzi – che per la prima volta è stato introdotto ed accettato il principio che la crescita non deve solo essere forte e sostenibile ma anche inclusiva, ossia rispettare i principi di equità e dare risposte concrete alle paure dei cittadini e delle classi medie in questo momento di grave incertezza».
Senza spingersi troppo in là nell’esegesi delle parole e soprattutto nell’analisi delle possibili azioni verranno messe in campo, è evidente che l’economia di mercato - così come si è dato per scontato per molto tempo - non è stata in grado di autoregolarsi e di procedere alla redistribuzione di ricchezza e opportunità. Lo confermano i dati che testimoniano l’allargarsi progressivo - anche dentro il periodo successivo all’inizio della grande crisi post 2008 - della forchetta che divide chi possiede moltissimo e chi non ha quasi nulla. Equità e sostenibilità tornano a essere quindi argomenti che è obbligatorio tenere in considerazione, mettendoli al centro di ogni agenda politica - se si vuole anche solo provare a trovare il bandolo della matassa del “grande caos” nel quale siamo chiamati aa agire. Non un tentativo di tornare alle condizioni pre-crisi ma la necessità di interpretare il presente per saper muovere i giusti passi nella direzione del futuro.
Cade a proposito - certamente in anticipo su ciò che gli sta attorno - il Workshop Impresa Sociale di Riva del Garda (15 e 16 settembre prossimi), che di questi argomenti si propone come luogo privilegiato per la formazione, l’approfondimento e, perché no, la prototipazione di modelli che aiutino a cambiare i paradigmi dello sviluppo dell’impresa e più in generale della società tutta. Un esercizio utilissimo, di cui anticipiamo qualche questione di fondo con Flaviano Zandonai, uno dei componenti di Iris Network, organizzatore dell’evento.
Equità e sostenibilità in uno scenario diseguale. Partiamo dalla fine del titolo. Dacci due coordinate dello scenario diseguale di cui Iris Network si propone di parlare a WIS2016?
Luca Ricolfi parla di “terza società”. Direi che la principale coordinata di disuguaglianza sta lì dentro. Uno strato sociale composto da persone che vivono ai margini dei mercati economici e del lavoro, esclusi dai contesti sociali dove si generano opportunità di crescita e di sviluppo. Una popolazione che in termini numerici pesa quanto le componenti tradizionali (la società dei “garantiti” e del “rischio”) e che in certi ambiti - ad esempio nelle fasce di età più giovani, nei crescenti flussi migratori, nella sterminata platea dei lavoratori atipici, nella componente femminile - è maggioranza sempre meno silenziosa rispetto a emergenti istanze di rappresentanza e tutela.
Veniamo ai due temi che qualificano la vostra proposta. Cosa significano oggi equità e sostenibilità?
L’equità non è solo una questione distributiva - cioè allocare meglio le risorse disponibili - ma è anche una questione procedurale, cioè di partecipazione ai processi deliberativi e di governance. Il deficit democratico da più parti segnalato consiste infatti nella scollatura tra partecipazione - ridotta a rito da molti già abbandonato - e potere decisionale. Chi saprà ricomporre questo gap potrà innescare percorsi virtuosi, come ad esempio nel caso della rigenerazione di infrastrutture e servizi, intesi come beni comuni. La sostenibilità viene di conseguenza. Pratiche insostenibili sono strettamente correlate a elevati livelli di iniquità. Per questo equo e sostenibile è un’endiadi, ovvero un concetto che si rafforza nella misura in cui i due termini vengono accostati e riescono a viaggiare insieme.
Come sta l’impresa sociale dentro le trasformazioni che il contesto post-crisi ha generato. Soffre? Ha caratteristiche resilienti? Subisce l’influenza di ciò che le succede attorno o riesce a essere a influente nella descrizione di nuovi modelli di riferimento?
L’impresa sociale è una forma istituzionale (con tanto di normativa) per cui, necessariamente, respira il contesto in cui opera e al contempo ne codetermina l’evoluzione. Certamente l’impresa sociale ha dimostrato di possedere caratteristiche di resilienza che, dati alla mano, sono state attuate attraverso un mix di investimenti e contenimento dei costi. Ciò ha consentito di preservare l’occupazione e l’offerta di servizi, ma al prezzo di irrigidire la struttura rendendo difficoltoso il “rimbalzo” in un nuovo stato, operando cioè da leader e non solo al traino di attori, come la pubblica amministrazione, che detengono quote sempre più residuali di risorse, ma soprattutto vivono una crisi di legittimazione e di visione che si palesa quotidianamente. Credo, da questo punto di vista, che il nuovo ciclo di vita dell’impresa sociale si realizzerà non all’interno delle catene di redistribuzione di risorse pubbliche, ma soprattutto in mercati che sono sempre più sociali sia nella domanda di beni e servizi sia nella disponibilità di risorse per lo sviluppo (impact investing). C’è chi vede il rischio di uno snaturamento dell’impresa sociale, postulando una relazione tra apertura ai mercati e perdita degli obiettivi di giustizia sociale che sostanziano la mission dell’impresa sociale. Ma proprio altre esperienze come quella del commercio equo dal quale abbiamo tratto ispirazione per il titolo del workshop ci raccontano esattamente il contrario.
Come è cambiato WIS negli anni e quali negli ultimi dodici mesi sono state le riflessioni che maggiormente hanno influenzato il gruppo di lavoro che ne permette la riuscita?
Il prototipo del workshop che organizziamo oggi è nato ormai sette anni fa quando abbiamo aperto alle pratiche - e non solo alla divulgazione - dei “sacri testi” in materia d’impresa sociale e abbiamo allargato il campo degli interlocutori, oltre ai modelli più conosciuti ed affermati come la cooperazione sociale. E’ curioso notare che proprio in quel periodo in qualche think tank statunitense si coniava il concetto di “open innovation”. Diciamo che, nel nostro piccolo, abbiamo avviato un percorso simile. Le riflessioni, ieri come oggi, sono (o dovrebbero essere) alimentate da una conoscenza attivabile, capace cioè di proporre modelli interpretativi adatti e adattabili alle esigenze di sviluppo. Merce rara e preziosa. Non a caso tutti i nuovi programmi europei a sostegno della ricerca vanno in questa direzione sostenendo la creazione di community della conoscenza composte non solo dai ricercatori ma anche dagli “addetti ai lavori”. La teoria in continua relazione con la pratica, in un asupicabile processo generativo.
Entriamo in alcuni dei temi della due giorni rivana. Partiamo dalla fine, reddito di cittadinanza. Da che punto di vista entrate in un dibattito che in alcune parti d’Europa ha prodotto già sperimentazioni approfondite e in Italia fatica invece a trovare il giusto spazio? Iniziativa moralistica e diseducativa (come dicono alcuni) o necessaria misura dentro un contesto lavorativo e economico decisamente cambiato?
Ogni volta che sento parlare di reddito di cittadinanza penso a un vecchio libro di Maurizio Ferrera che si intitola “Le trappole del welfare”. Un campionario di pratiche elusive e distorsive che, inevitabilmente, investono soprattutto le risorse di welfare redistribuite a sostegno della domanda. Detto questo credo che in una società pesantemente riconfigurata come la nostra misure di sostegno al reddito siano importanti e forse, per certi versi, in parte presenti. Ad esempio non potremmo considerare la Naspi - l’indennità di disoccupazione introdotta col jobs act - una misura di sostegno al reddito? (nda: oggi si comincia a parlare di un possibile sussidio di disoccupazione su scala europea) Certo da sola non basta e per questo credo sia necessario prevedere diverse misure che rispondano a un’esigenza di universalismo che, sempre come sostiene Ferrera, non è “a tutti uguale” ma “ugual trattamento per uguali bisogni”.
Tutto il programma fa riferimento all’esigenza di un’adeguamento dei linguaggi e degli indicatori dentro uno scenario mutato. “Andare oltre il PIL” sembra essere oggi approccio largamente condiviso, benché la crescita sia ancora indicatore apparentemente obbligatorio nelle definizione dei trend economici. Cosa può portare l’impresa sociale dentro la validazione di criteri non solo economici nella valutazione del benessere?
Credo che l’impresa sociale possa, banalmente, portare il suo know-how. Queste imprese infatti sono impegnate da anni nel definire misure socioeconomiche che mettono in luce il loro effettivo “valore aggiunto”. Può sembrare spiazzante che oggi di tutto ciò si occupi l’OCSE o alcuni istituti finanziari, ma in realtà è un’opportunità importante che - se non ci lascia confondere dagli aspetti formali - richiama un ribaltamento di prospettiva. Gli indicatori sociali non sono dati di rendiconto sugli scostamenti rispetto a obiettivi e modelli predefiniti, ma una misura dell’effettivo impatto generato dal quale poi emerge il valore del soggetto (o più spesso dei soggetti) che lo hanno saputo generare.
Welfare generativo e impatto sociale sembrano andare invece a braccetto nella definizione di un nuovo ruolo dell’impresa sociale nella relazione con territorio e comunità. Meno prestazione, più capacità di essere attori protagonisti dell’abilitazione diffusa di ogni parte della comunità stessa. A che punto siamo?
Credo che questa accoppiata sia all’origine di due importanti processi. Uno di “change management” che riguarda imprese sociali mature che si vogliono riposizionare su quelle dinamiche comunitarie che magari trent’anni fa ne hanno determinato la nascita ma dalle quali si sono via via distaccate per essere assorbite nella tecnocrazia dell’outsourcing pubblico. Il secondo è di “institution building”, ovvero di nascita di nuove imprese sociali che ridefiniranno in profondità il carattere ibrido di questo modello: cooperative di comunità, startup innovative a vocazione sociale, imprese sociali di capitali, imprese coesive, ecc. Il quadro è ormai definito. E - sembrerà un controsenso - in costante movimento...
Città e aree interne. Smart city e smart land. Sviluppo urbano e (altro) sviluppo delle aree periferiche. Rimane in piedi questa dicotomia e su che rotte si sta muovendo?
Credo sia una dicotomia utile soprattutto a semplificare la vita ai policy makers e magari anche a qualche ricercatore. Scherzi a parte, credo che la distinzione effettiva stia nella densità delle risorse (asset) disponibili a tre livelli: infrastrutture, capitale umano e tessuto comunitario. Lungo queste tre faglie si disegnano, non da oggi peraltro, le mappe dei contesti socioeconomici e ambientali.
Sharing Economy. Nei giorni scorsi Pagina99 analizzava la contrapposizione tra apocalittici e integrati. Senza dover schierarsi in uno dei due campi, l’economia della condivisione concorre alla giustizia sociale e alla riduzione delle diseguaglianza o ne peggiora i contorni?
Sarei sorpreso che una qualsiasi cosa definita “economia della condivisione” non generasse, anche solo come esternalità, un minimo di giustizia sociale e uguaglianza. Se non lo facesse - e in effetti il problema si pone - porrei la questione non solo ai “signori del silicio” che governano le imprese della sharing economy, ma anche, e soprattutto, all’economia sociale che, per una serie di ragioni, non è riuscita a intercettare una “voglia di condivisione” che a mio avviso non deriva solo dalla disponibilità di una tecnologia abilitante, ma da meccanismi culturali più profondi. Una propensione al condividere e al cooperare che, a mio modo di vedere, è oggi più pragmatica e meno ideologica. Più centrata sull’obiettivo che sulle precondizioni. E questo ha contribuito a spiazzare molti dei soggetti tradizionali della “socialità organizzata”.
Crescono momenti di incontro, approfondimento, impegno che sfociano addirittura nella formazione - seppur informale e mai realmente emersa in modo organizzato - di un nocciolo di pensiero e di azione politico/sociale alternativo al pensiero economico dominante. Le Giornate di Bertinoro, le Comunità del Cambiamento (organizzate da Rena), WIS, ShareItaly, La Città del Noi e molte altre iniziative rappresentano oggi luoghi di riflessione diffusa che pongono in essere alcune radicali trasformazioni nello status quo dei contesti che le circondano. Qual è la loro forza di influenza e la capacità di produrre impatto a valle dei propri momento di riflessione?
Vorrei dirti molto, ma non è così. O meglio credo che gli elementi vincenti di queste iniziative siano di due tipi e siano strettamente correlati tra loro: il primo è legato alla loro capacità di star dentro (o meglio di intermediare) un ecosistema di risorse e il secondo di consolidare una community di riferimento allargandola e differenziandola. Questi sono i due ingredienti del successo che per ora vedo distribuiti in dosi diverse tra le iniziative che citi. Peraltro queste stesse iniziative non sono solo “eventologia” , legata cioè a pur lodevoli intenti di formazione, trasferimento tecnologico, diffusione culturale. Sono anche prove tecniche per la ristrutturazione dei corpi intermedi che operano tra stato e società. A mio avviso una sfida di riforma molto importante, pari a quella che riguarda “la politica”.
Federico Zappini