L’economia diventa circolare
L’economia diventa circolare
Che sia arrivato il momento di chiudere alcuni dei processi che il modello economico capitalista ha sempre lasciato aperti, correndo il rischio di aumentare a dismisura l’impronta ecologica della nostra società?
Leggendo il libro «Economia innovativa» (2016, Edizioni Ambiente) si direbbe proprio di sì. E ascoltare Andrea Vecci - uno degli autori - invitato da Trentino Social Tank per presentare il volume, non fa che confermare la sensazione di un cambio di approccio, sia nel campo della produzione che del consumo, che lentamente prende piede.
«Viziata» in alcune sue parti da non nuovi fenomeni di green washing (i grandi player globali hanno interessi e risorse per fare qualche test in questa direzione) e rallentata da alcuni evidenti problemi di scala (nel piccolo si trovano esperienze molto innovative, ma più si allarga il contesto e più è difficile centrare l’ambizioso obiettivo di chiudere il cerchio) non si può negare che l’ipotesi dell’economia circolare sia oggi molto più sostenuta e pratica rispetto a qualche anno fa. La crisi dell’economia lineare - figlia anche del disaccoppiamento dei classici binomi energia/produzione e lavoro/reddito - offre nuovo spazio a modelli alternativi, capaci di valorizzare le eccedenze dei processi produttivi. Circular economy insieme a sharing economy e platform economy (capacità di valorizzare le risorse dentro meccanismi collaborativi e di rete) e blue economy (ne abbiamo già parlato in questo blog) tentano, non senza contraddizioni, di colmare il vuoto.
Chiudere i cicli di produzione e consumo altro non significa che dare nuova vita a prodotti o materie che a torto per lungo tempo abbiamo definito scarto, riducendo in questo modo la quantità di rifiuti e estraendo da essi nuovo valore. Riutilizzo (di uno stesso prodotto con lo stesso utilizzo), riciclo (recupero di materie prime da prodotti non più utilizzati) e upcycling (capacità di dare valore allo scarto di produzione) sono le pratiche dell’economia circolare, capaci di scardinare la linearità della produzione per come l’abbiamo conosciuta fino a oggi: estrazione, produzione, consumo, smaltimento.
Ecco allora che che l’esperienza di Fungo Box (progetto della Cooperativa Giardinone) descrive perfettamente lo schema che l’economia circolare propone. Il residuo del caffè - primo test con Lavazza, all’interno di Expo2015 - utilizzato come base organica per la produzione di funghi, sia su scala industriale che dentro casa. Solo una delle ventisei maniere - sperimentate - attraverso le quali valorizzare i fondi di caffè che ogni giorno gettiamo in quantità elevate nell’immondizia. E se funziona per far nascere funghi dalla polvere di caffè esausta ecco che, allargando lo scenario, la città di Amsterdam si attiva per lo studio e la progettazione di un piano integrato per l’economia circolare, prestando particolare attenzione ai cicli del cibo, della mobilità e dell’edilizia. Dal molto piccolo al decisamente grande tutto sembra funzionare perfettamente.
Ma cosa manca? E’ ancora troppo debole il ruolo del potere pubblico, l’unico - forse insieme alle grandi multinazionali dell’high tech - che potrebbe assumersi la responsabilità delle grandi sfide globali, quelle che necessitano di un approccio sistemico e planetario che ancora troppo spesso manca. A una maggiore consapevolezza dei dati che ci segnalano il superamento del limite (l’abbandono dei safe spaces) nella relazione della specie umana con il pianeta Terra - si veda la grafica proposta da Johan Rockstrom - dovrebbe corrispondere un’uguale percezione delle conseguenze che da questo sforamento ormai costante derivano. In particolare una crescente fragilità del «pavimento sociale» che Kate Roworth ha aggiunto all’efficace rappresentazione di Rockstrom. Lavoro, energia, istruzione, equità sociale, acqua, cibo, reddito, parità di genere, resilienza, salute, diritto di espressione. Un plafond di sicurezza e coesione che vediamo oggi sempre più spesso messo in dubbio. E’ qui che entra in campo la visione politica, e l’azione che ne consegue, di chi il potere pubblico lo detiene e avrebbe il compito di praticare nell’ottica della tutela del bene comune.
Parallelamente è altrettanto evidente che anche dal basso possono attivarsi importanti spinte al cambiamento (progettuale e di advocacy) ed è in questa posizione che potrebbe trovare combustibile l’innovazione rappresentata dall’impresa sociale. Abituata a dover farsi carico - in forma di servizio alla persona - dello «scarto» della società, di chi ne viene messo al margine, è oggi chiamata ad interrogarsi su un proprio possibile nuovo ruolo nella necessaria messa a valore di eccedenze di produzione, siano esse materiali o immateriali. Saprà essere all’altezza di questo compito generativo?
Federico Zappini