Una sedia vuota e quel rialzarsi
Una sedia vuotae quel rialzarsi
«Un’assenza apparecchiata per cena» ha scritto De André, in «Disamistade», delle lontananze irrimediabili che si sentono come uno squarcio quando ci si ritrova intorno a una tavola di famiglia e c’è una sedia vuota che scava ogni volta il dolore in chi resta.
Ferita da una «partenza» imprevista improvvisa e lacerante (un marito giovane, Mauro, che le muore accanto, di colpo, che non si risveglia dal sonno e la lascia sola nel 2013, a 37 anni, con Viola, bambina di tre anni), ora la giornalista padovana Arianna Prevedello ha pubblicato «La grazia di rialzarsi» (San Paolo), un libro coraggioso: «Ho capito che potevo mettere al mondo anche la morte, figlia della vita».
Un libro che vorrebbe aiutare coloro che devono fare i conti con il lutto, attraverso quindici parole che segnano il percorso di consapevolezza e di rinascita intorno al vuoto drammatico che la scomparsa (specie se inaspettata e prematura) di una persona cara crea dentro di noi: tavola, fotografie, parole, assenza, soglia, pazienza, solitudine, senso, oggetti, ricordi, rifugio, lacrime, tempo, sogno.
E voce: «C’è chi, come me, ha dimenticato la sua voce: mi sforzo, mi obbligo ma non riesco a lasciarla risuonare nella mia testa. Non c’è nulla da fare, non la sento. Il giorno in cui ho capito che l’avevo persa per sempre ho sofferto come un secondo lutto».
Come si coglie da questa breve citazione, «La grazia di rialzarsi» è un libro sincero, anche nell’esplorare i meandri più oscuri generati dalla perdita: l’immotivato senso di colpa, il vuoto allo stomaco ma anche la voglia di ricominciare a vivere, di non lasciare chiuso per tutto il resto della vita il capitolo dell’amore.
L’autrice affronta dunque il difficile snodo esistenziale della perdita con un taglio pratico-esperienziale ma anche con citazioni introduttive ad ogni voce che pescano nella letteratura, nella psicoanalisi, nella poesia: da Borgna a Marcoaldi, da Boyle a Mariapia Veladiano, che nella prefazione scrive: «La vita dopo il lutto è tutta un agguato.
Ogni angolo, oggetto, colore, odore, porta un ricordo che è assenza...
La fede non si sovrappone, non aggiusta il tiro dell’umano sentire, non anestetizza, non fa il salto del mondo. È dentro nella forma del desiderio, di vita qui e di vita che continua».
Completa il volumetto, con una scelta originale e azzeccata, un’antologia di film evocati come «salmi» visivi, che talvolta possono confortare più delle preghiere, in un’immersione che ha il valore della catarsi, dell’immedesimazione purificatrice.
Quindici proposte cinematografiche, dunque, per condividere «attraverso le vite degli altri - il proprio dolore: ci sono Almodovar e Olmi, c’è «Ritorno alla vita» di Wim Wenders, c’è «La foresta dei sogni» di Gus Van Sant, c’è il bellissimo Still Life» di Uberto Pasolini, sulla pietà di un impiegato delle pompe funebri, John May, che si appassiona alla ricerca dei parenti dei tanti morti solitari che nessuno reclama.
Si potrebbero aggiungere «Il paradiso può attendere» di Warren Beatty (nella foto), che in forma di commedia americana ci insegna che l’eternità resta dentro uno sguardo, e soprattutto il primo comandamento dell’insuperabile Decalogo di Kieslowski, dove la domanda sulla morte del bambino Pawel inghiottito dal ghiaccio diventa una lancinante sfida all’assenza di Dio. O perlomeno al suo silenzio.
Leggendo il libro-confessione di Arianna Prevedello ci è venuto in mente un altro bel libro su una precoce scomparsa, di un altro giornalista, il vaticanista Luigi Accattoli, dedicato alla cognata strappata alla vita troppo presto, troppo «ingiustamente».
Il titolo del libro era «La speranza di non morire» ed è un altro modo di dire «La grazia di rialzarsi». Qualcuno ti deve aiutare a rialzarti. A ripartire. A ricominciare. Una parola umana, ci vuole. Una Parola più che umana, forse. Non per riempire il silenzio e il vuoto, che sono incolmabili e irreparabili.
Ma per leggere il silenzio. Per leggere il vuoto.
Per non farcisi risucchiare dentro.
Non ci è consentito, non ci è permesso.
Perché noi abbiamo bisogno dei morti, ma i vivi hanno bisogno di noi.