La vita come blues su un treno di libri
La vita come bluessu un treno di libri
Sì, viaggiare nel vasto mondo è gran cosa ma lo sappiamo che i viaggi più appassionanti si fanno con i libri.
Nessun altro viaggio ti offre la possibilità di entrare nella vita degli altri come i romanzi capaci di restituirti i sapori, gli odori, i colori dei personaggi che vivono una loro esistenza concreta anche se non sono mai esistiti.
Insomma: «Nessun vascello c’è che come un libro possa portarti in contrade lontane» (Emily Dickinson).
L’inarrivabile potere della pagina scritta riceve nuova conferma dal romanzo-saggio di Valentino Corona, che ha insegnato l’italiano a Pola e Bratislava e dopo aver raccontato - ad ovest - un cammino verso Santiago, ora ci canta un «Blues siberiano» (Publistampa Edizioni, 274 pagine) sul mitico treno che va all’est che più est non si può, fino a Vladivostok. Ventimila chilometri tra andata e ritorno.
La copertina blu firmata da Adriano Siesser - con il treno sotto la luna piena - evoca uno splendido verso dylaniano («Ci vuole tanto per ridere, basta un treno per piangere») ed esprime bene l’umore del racconto, che - se pure tocca spesso i registri dell’ironia, della parodia, della satira - è fondamentalmente malinconico.
Sì, perché ogni viaggio «mitico», sognato, progettato a lungo, non può non essere una delusione più o meno grande. Troppo alte le attese, troppo forte il desiderio, per non incocciare in inciampi, piccole miserie, cibo scadente, volgarità, mal di stomaco, banali seccature.
Lo stesso atteggiamento del trentino viaggiatore-narrante, accompagnato da uno studente-segretario slovacco che gli fa da interprete di russo, è - fin dall’inizio - tinto di spleen e di scetticismo: quasi riluttante il viaggiatore scende dal treno a visitare perplesso qualche pezzo di città (solo Kiev, ma siamo ormai alla fine del viaggio di ritorno, gli evoca un’aria quasi parigina), quel che osserva dai finestrini è di solito un paesaggio monotono, frammentario e poco leggendario, nell’infinito Oriente che attraversa, trascolorando da Europa ad Asia.
E allora, che cosa rende «comunque» appassionante il viaggio e coinvolgente il «Blues siberiano», oltre all’epilogo in cui finalmente il segretario-interprete neocapitalista si scioglie - sotto un catartico diluvio nella stazione di Uzhorod, arrivo e partenza del viaggio - e confessa il suo amore per Lenka, la moglie perduta?
Il fatto che il colto autore riscatta ogni tappa con ricchi rimandi storici e letterari a decine di libri, autori, personaggi che affollano il suo scompartimento, popolandolo di fantasmi che sembrano più veri dei compagni di viaggio reali con cui Michal si impiglia.
Lui, il bluesman Corona, antipatizzando l’agitarsi della stupidità umana sul treno, resta a lungo nella sua cuccetta superiore e cerca conforto nell’amato Dostoevskij ma anche in Reich (le pulsioni sessuali degli «esistenzialisti» occidentali per le donne slave sono osservate con una curiosità quasi zoologica).
Il tutto in attesa di incontrare uno sciamano siberiano (era la passione di un altro scrittore trentino, Ruben Frizzera, cercatore di popoli e di orsi) che invece vedrà solo di sfuggita, in versione femminile, professionale, poco empatica.
Gli episodi epocali evocati dal progredir del viaggio sono una gran folla (peccato che non c’è l’indice dei nomi) di chi ha fatto la storia della Siberia, tra avventure esagerate e crudeltà ferocissime che Corona evoca con inorridita e quasi divertita eleganza.
Il «Blues siberiano» diventa così un viaggio tra le memorie scritte, più ancora che un viaggio in treno, che evoca un infinito intreccio di popoli per larga parte ormai spazzati via o disintegrati: forse solo il lungo catalogo delle lingue salvate - che il bluesman Corona sciorina nel suo vasto racconto siberiano - riesce a rievocare dal buio dell’oblio i cento popoli e le mille storie che hanno abitato quell’immensa terra di fiumi e di boschi: russi e russini, russi rossi e russi bianchi, ucraini, polacchi, ruteni, ceceni, mongoli, cinesi e manciuriani, tartari, cosacchi, kirghisi, voguli e voivodi, ostjaki, samojedi, korjaki e kamciadali, jakuti e jukagiri, aleuti e inuit, sacha, mocassi, cannibali e guerrieri, menscevichi e bolscevichi, kulaki e sotto-kulaki, pope, babuske, generali e galeotti, squartatori e squartati.
«Blues siberiano» diventa così non solo la cronistoria agrodolce di un viaggio più malinconico che allegro, ma una preziosa guida-enciclopedia-dizionario. Dunque, un nuovo vertiginoso capitolo nel viaggio più avventuroso: quello tra le pagine che evocano le vite perdute di chi ci ha preceduto, cantando ciascuno il suo blues prima di sparire dall’orizzonte.