La disperata fuga del killer di Amplatz
La disperata fuga del killer di Amplatz. Dopo aver ucciso con tre colpi di pistola Luis Amplatz che dormiva chiuso nel sacco a pelo, Christian Kerbler sparò su Klotz ma quando, esploso il terzo colpo accese la torcia elettrica e sentì gridare quel furibondo “spegni la luce”, si rese conto che il piano omicida era fallito. Adesso l’arma che impugnava era scarica, il tradimento scoperto e la sua vita in pericolo. Carponi guadagnò l’uscita del fienile mentre Klotz capiva che cessata la sparatoria che lo aveva svegliato, nessuno era in agguato all’esterno della baita, Amplatz era morto e lui era stato ferito al volto e al torace dall’uomo che lo aveva tradito. E che stava fuggendo.
Uscito dal fienile Kerbler fu travolto dal panico. Certamente pensò che Klotz lo avrebbe inseguito, raggiunto e ucciso; forse pensò che chi lo aveva assoldato come sicario lo avrebbe ammazzato per togliere di mezzo un testimone divenuto davvero troppo pericoloso. Raccontò Klotz: “Luis era morto, io ero stato colpito tre volte, ma al Kerbler non era accaduto nulla. Io, quando aveva acceso la luce non avevo visto né le sue mani né la pistola. Che doveva essere scarica, altrimenti mi avrebbe sparato ancora. Se lo avessi incontrato… non aveva più munizioni e io avevo la calibro 8 ben provvista” di colpi. Kerbler vagò nel bosco in una fuga sempre più disperata e pensò di consegnasi a qualcuno, prima di essere raggiunto da Klotz o da chi lo aveva ingaggiato per uccidere.
Per essere chiari: dagli agenti dei “servizi” più o meno segreti che avevano tutto l’interesse ad eliminare il testimone di un delitto di Stato. La ricostruzione della fuga di Kerbler è scritta nella sentenza della Corte d’Assise di Perugia che, fra quelle pronunciate per fatti di terrorismo – quasi tutti i processi vennero trasferiti per “legittima suspicione” fuori dalla sede naturale, ossia presso tribunali diversi da quello di Bolzano – è la più significativa per dimostrare il perverso intreccio fra verità di comodo, reticenze, travisamenti e il sospetto che prima il Sifar poi il Sid avessero sperimento nel Sudtirolo metodi, comportamenti poi trasferiti in epoche e circostanze politiche diverse in altri luoghi della Repubblica. Magari a Piazza Fontana in quel di Milano?
“Erano circa le 4,30 di lunedì 7 settembre 1964, allorché la sentinella del distaccamento vigilanza opere militari di Saltusio in Val Passiria, Bergamasco Dino, vedeva un uomo avvicinarsi alla caserma e gli intimava l’alt. L’uomo alzava le mani in segno di resa e, pronunciando in lingua italiana le parole morti-feriti indicava col dito un punto imprecisato a monte dell’abitato. La sentinella dava l’allarme e sopraggiungeva prima il capoposto caporale Curti Aldo poi il comandante del distaccamento, il sergente degli Alpini Romanato Giorgio al quale lo sconosciuto, parlando in tedesco, chiedeva di telefonare a Bolzano e ripeteva la parola toten (morti) indicando la montagna”. La sentenza narra che il Romanato “cercò di spiegare che non aveva un telefono da mettere a disposizione” anche se è più probabile che il sergente, di fronte a quell’uomo “in preda a forte agitazione, sconvolto, sudicio, con i vestiti in parte laceri” e tirato giù in fretta e in furia dalla branda, lo abbia mandato, e brutalmente, a quel paese.
Cacciato dalla caserma l’uomo compare nella stube dell’albergo Saltusio “gestito dai fratelli Giuseppe, Helga e Maria Pircher ai quali appariva come un giovane sui 25 anni, alto, biondo, con gli abiti strappati e sporchi, stanco e agitato, con le braccia graffiate e un’ espressione che sapeva di cattivo, anzi di selvaggio”. Kerbler corre al telefono che è guasto e parlando in tedesco “con accento austriaco chiede di telefonare alla Polizia di Bolzano raccontando di aver assisto ad una sparatoria, di essere stato sfiorato da colpi di arma da fuoco e di aver sentito provenire da un fienile il grido wie der letzte todesschrei (l’ultimo grido di vita) di qualcuno colpito a morte”.
A questo punto Giuseppe Pircher corre al vicino distaccamento degli Alpini, il sergente Romanato capisce che può essere successo qualche cosa di grave, chiama il suo comando, poi i carabinieri di Merano, manda tre Alpini a piantonare lo sconosciuto che viene perquisito. Ecco saltar fuori la Beretta cal.9, “con il caricatore vuoto e la culetta aperta”. Alle 6 del mattino arriva dalla stazione Carabinieri di San Leonardo in Passiria il brigadiere Dino Bergamo con il capitano Mario Rocchetti March poi, con ufficiali e carabinieri, Giovanni Peternel della Questura di Bolzano che conoscedo il tedesco, parla con l’uomo piantonato. Che dichiara di chiamarsi Peter Hoffman nato e residente a Salisburgo.
Affluiscono uomini in armi, volano gli elicotteri, inizia il rastrellamento, si arriva al fienile, si scopre il corpo dell’Amplatz che “giaceva in posizione composta, supino, chiuso nel sacco a pelo dal quale emergeva solo la testa… sprofondato nel fieno”. Nel fieno c’è il sacco a pelo macchiato di sangue, abbandonato da Klotz, un bossolo calibro 9 sparato dalla Beretta e a questo punto si concretizza il giallo. Sempre dalla sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise di Perugia si legge: “Alle ore 2 di quello stesso giorno 8 settembre, il commissario capo di Pubblica Sicurezza dott. Giovanni Peternel, il commissario Enrico Benevento e il sottotenente di P.S. Renato Compagnone avevano preso in consegna dal capitano Mauro Rocchetti March il sedicente Peter Hoffmann per gli accertamenti sulla sua identità e sulle ragioni del suo soggiorno in Italia. Senonché il 15 settembre successivo” – dunque 7 giorni dopo, a meno che quel “15” non sia un errore di scrittura, un mero “errare di stimpa” come si diceva scherzosamente nelle tipografie dei giornali – “Peternel informava il Procuratore della Repubblica di Bolzano che l’Hoffmnn, nella notte dell’8 settembre verso le 2,30 mentre veniva accompagnato a Bolzano da funzionari dai P.S. sopra indicati, dopo aver cagionato lo sbandamento dell’autovettura sulla quale viaggiava, afferrando il volante e sterzando violentemente malgrado i tentativi del conducente di mantenersi in carreggiata, si lanciava fuori [dal veicolo] dileguandosi e facendo perdere ogni traccia di sé. Da notare che dal momento della riferita fuga, il giovane in questione non era stato ancora assunto a verbale da alcuno, né lo sarà in seguito essendo a tutt’ oggi (la sentenza è datata 21 giugno 1971) latitante”.
Dunque, dal giorno 8 al giorno 15, l’Hoffmann, cioè il Kerbler, sarebbe rimasto in un sorta di limbo, nessuno lo avrebbe interrogato, né visto, né alloggiato, né nutrito. In verità, dalla Svizzera era già stato trasferito in Inghilterra destinato a Città del Capo. E in Svizzera si suicida tale Ravanelli che aveva procurato a Kerbler il biglietto d’aereo per Londra. E in Austria, a Solbad Hall si era suicidato anche un giovane giornalista di nome Hans Wagner. Di lì si sa che fino a pochi giorni prima dalla tragedia di Saltaus, era stato a fianco di Kerbler. Poi all’improvviso si era ritirato dicendo che di lì a poco si sarebbe sposato. Scrisse il giornalista Piero Agostini nel novembre del 1985: “Sposatosi, aveva deciso di lasciare prematuramente vedova sua moglie. Il che, purtroppo, avvenne”.
(continua)