L’urlo di Londra: «Restiamo aperti»
L’urlo di Londra: «Restiamo aperti»
Nel cuore di Londra. Davanti c’è il Tower Bridge, simbolo come pochi altri dell’età vittoriana. Sotto, il Tamigi scorre, incurante della giornata storica. Accanto, sfilano decine di persone: tanti ragazzi, tutti europei. Gli italiani, come sempre, sono i più rumorosi.
Sono arrivati a piedi seguendo quel tratto del Thames Walk che ti fa raggiungere Southwark dopo essere partiti dal Big Ben e aver visto da vicino la Tate Gallery, il London Bridge, lo Shard disegnato da Renzo Piano.
La cattedrale di San Paolo si alza maestosa ma per vederla da vicino bisogna camminare fino all’altra sponda del Tamigi. È la stessa cattedrale dove la storia ha celebrato i funerali dell’ammiraglio Nelson, del duca di Wellington e di sir Winston Churchill, oltre a quello di Margaret Thatcher. Ma quel gruppo di europei non è arrivato a celebrare un funerale, anche se dalle 23 di ieri (orario di Greenwich, mezzanotte in Italia) il Regno Unito non fa più parte dell’Unione europea.
Quelle persone - molti accenti dell’est, poi spagnoli e tedeschi - si infilano dentro la struttura ovale in vetro e ferro che è la City Hall, il municipio della capitale inglese. Donne e uomini chiamati dal sindaco Sadiq Khan, che da mesi insiste su un messaggio: Londra resterà città aperta.
E davvero Londra ha fatto di tutto per promettere che rimarrà il formidabile punto di accoglienza che è stato da sempre, un po’ mito da raggiungere, un po’ rifugio dei sogni, un po’ casa confortevole ma anche un po’ respingente, con le sue continue evoluzioni e la vita che scorre veloce.
#Londonisopen in queste ore di smarrimento ha messo sotto lo stesso tetto virtuale centinaia di enti e istituzioni che hanno il sacro terrore di perdere anche solo un’oncia della loro apertura sul mondo. «Londra è stata aperta alle persone, al commercio e alle idee per più di mille anni, e da domani continueremo ad esserlo», ha spiegato il sindaco Khan a Sky News, dall’ultimo piano del suo ufficio, poche ore prima di ricevere personalmente i suoi ospiti, assieme ad avvocati e consulenti pronti a rispondere in forma gratuita agli interrogativi e alle inquietudini degli europei residenti a Londra.
Quel “domani” però è già arrivato, ed è ora e qui: il Regno Unito non fa più parte dell’Unione europea e inizia il percorso verso l’ignoto. Vedremo come finiranno le trattative di addio tra il governo di Boris Johnson e gli uffici europei, noi intanto ci aggrappiamo all’impegno e alla speranza che «Londra sarà sempre europea», come ieri hanno twittato tanti primi cittadini del continente, tra cui Beppe Sala, il sindaco di Milano subito ringraziato da Khan.
Il giorno dell’addio all’Europa è stato soprattutto questo, a Londra: il giorno dell’orgoglio inglese-europeo, non solo inglese da una parte ed europeo dall’altra, con un muro al posto del canale della Manica. Ma parlare di orgoglio europeo è forse riduttivo, perché l’Europa è solo una parte del cuore della metropoli, che si vanta di dare opportunità di lavoro e studio a chi arriva da ogni continente. Se il premier Boris Johnson ha avuto atteggiamenti controllati - che non gli appartengono - nel vaticinare «una nuova alba» e se ieri davanti a Westminster e ai piedi del London Eye erano davvero pochi a celebrare la Brexit, si è fatta sentire la voce di chi questa “uscita di scena” non l’ha mai voluta, e ha capito da subito i pericoli che avrebbe comportato il colpo di testa di David Cameron, l’ex premier che volle far passare i suoi sogni di gloria personali dal referendum, con risultati nefasti.
Il Guardian, uno dei più autorevoli quotidiani al mondo e casa dei veri liberali dell’occidente, ieri è uscito in edicola con «Small island» («Piccola isola») come titolo unico della prima pagina, dando ragione al libro memorabile «Notizie da un’isoletta», il viaggio compiuto da Bill Bryson da Dover fino alle struggenti Dales scozzesi.
Musei e luoghi di cultura hanno alzato la bandiera europea, in queste ore. L’ha fatto ad esempio la Royal Albert Hall, il teatro più icononico di Londra: «Siamo nati più di 150 anni fa per accogliere artisti e spettatori da tutto il mondo e unirli nella musica, nell’arte e nelle scienze. Abbiamo la stessa visione oggi e domani: siamo aperti».
In ogni caso, il punto di non ritorno è stato raggiunto. E cosa cambia, in concreto? Nell’immediato poco, visto che il vero distacco dalle regole e dai paletti attuali - sul mercato unico, le dogane condivise, la libertà di movimento delle persone, la giurisdizione della Corte di Giustizia europea - ci sarà solo alla fine del periodo di transizione verso il divorzio vero e proprio, fissato per il 31 dicembre 2020. Tanto per fare un esempio: se volate a Londra, ancora per undici mesi basterà la carta d’identità, poi servirà il passaporto.
Ma la Brexit lascerà sul campo tante macerie, sul fronte economico, culturale, sociale. Il tema dei diritti dei cittadini è uno dei più delicati del divorzio, con le sue implicazioni familiari e personali. Si stima che nel Regno Unito risiedano oggi 3,6 milioni di cittadini provenienti da paesi dell’Unione europea, inclusi quasi 400mila italiani registrati all’anagrafe consolare (ma il numero ufficioso rischia di raggiungere le 800mila unità). Tutti gli espatriati registrati come residenti già oggi o durante la fase di transizione e fino al 30 giugno 2021 manterranno i diritti attuali, quasi come se la Brexit per loro non ci fosse.
Le cose si complicheranno tuttavia per gli ingressi successivi, con lo stop alla libertà di movimento nel 2021 e l’introduzione di nuove regole secondo un regime d’immigrazione che in Gran Bretagna significherà sostanzialmente un’equiparazione tra gli europei e gli extracomunitari.
Sarà allora che ci accorgeremo che è finita un’era, fatta di scambi e di ospitalità, di apertura e accoglienza. Perderanno i giovani europei, perderemo tutti noi, perderanno soprattutto i britannici.
Ma ha ragione la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che ha citato una delle frasi più struggenti della scrittrice George Eliot: «Solo nell’agonia della separazione guardiamo nelle profondità dell’amore».